| Bernardo Caprotti è 
						l'imprenditore che ha portato all'eccellenza i 
						supermercati in Italia. Ne ha fatto un caso di rinomanza 
						internazionale, nel settore. A 81 anni ha deciso di 
						rompere il suo riserbo (niente interviste, niente 
						fotografie, poche apparizioni pubbliche, tanto lavoro) e 
						in questo libro-denuncia racconta ciò che ha dovuto 
						subire per mano delle Coop. Dai primi contatti con il 
						gigante "rosso" della grande distribuzione fino alle 
						polemiche degli ultimi mesi, il fondatore di Esselunga 
						ricostruisce un confronto pluridecennale scambiato fino 
						a poco tempo fa per normale concorrenza. Invece, 
						mettendo insieme con meticolosità le tessere del 
						mosaico, a Capretti è apparso un disegno preciso: far 
						sparire la sua azienda dal mercato. In questo j'accuse
						l'imprenditore documenta, prove alla mano, una serie 
						di vicende che di primo acchito sembrano tentativi 
						imprenditoriali andati a vuoto, nella realtà si rivelano 
						parte di un censurabile piano strategico altrui. Giacché 
						Esselunga non può essere la sola vittima del "sistema". 
						Dalla rigorosa esposizione dei fatti appare di tutta 
						evidenza 
						che molte iniziative di 
						Esselunga sono state affossate dalla Legacoop, il 
						gigante economico agli ordini del PCI-PDS-DS, con 
						l'indispensabile appoggio delle amministrazioni locali 
						di sinistra. Reperti etruschi usati come 
						grimaldello, licenze lasciate scadere (ma prontamente 
						girate alle Coop), terreni pagati sei volte il valore di 
						mercato, condizionamenti di sindaci e assessori, persine 
						uno scippo ai danni di una signora sopravvissuta al 
						campo di sterminio di Auschwitz per realizzare una 
						Ipercoop gigantesca in una città "proibita" 
						all'Esselunga. Tutto è servito per bloccare l'espansione 
						dell'imprenditore lombardo, che chiede soltanto di 
						"servire", di poter fare il mestiere imparato da Nelson 
						Rockefeller, di cui fu socio all'inizio dell'attività. 
						Operazioni che avevano richiesto anni di preparazione e 
						ingenti investimenti gli sono state sottratte dalla 
						"concorrenza" nel giro di poche ore. Fino a giungere 
						alle pressioni di Romano Prodi su Caprotti perché la sua 
						azienda resti «in mani italiane»: cioè sia ceduta alle 
						Coop. Una soluzione finale che aggiungerebbe la beffa 
						agli ingenti danni, morali e materiali, già subiti. La 
						galleria di fatti e personaggi (da Pierluigi Stefanini a 
						Turiddo Campaini, da Mario Zucchelli a Bruno Cordazzo) è 
						accompagnata da una documentazione inoppugnabile e 
						inedita che Caprotti ha ora pazientemente ordinato. «Il 
						mio braccio destro ripeteva che dietro certi episodi 
						c'erano le Coop», rievoca Fautore. «A lungo mi sono 
						rifiutato di credergli. Oggi riconosco che aveva 
						ragione».      In copertina: Un piccolo 
						campione 
						del "prestito sociale" delle 
						Coop. Circa 12 miliardi 
						di euro ovvero 24.000 miliardi 
						di lire. 
						
						 
						 INDICE    9      
						PREFAZIONE          
						di Geminello Alvi   39     Le 
						mie ragioni 41     
						Permette? Mi presento 59     
						Suicidio dì un boom 73     
						Prime avvisaglie   IL MIO ATTO D'ACCUSA   79     
						Mario Zucchelli e Coop Estense 95     
						Pierluigi Stefanini e Coop Adriatica 103   Turiddo 
						Campaini e Unicoop Firenze 109   Bruno Cordazzo 
						e Coop Liguria 117   Aldo Soldi e 
						ANCC   APPENDICE   131    La Coop 
						sei tu? Conosciamoci di più!          
						di Stefano Filippi
           RINGRAZIAMENTI       il mio grazie va a Geminello 
						Alvi che, con la sua prefazione, ha dato una dignità a 
						questo scritto artigianale. E a Stefano Lorenzetto, senza 
						il quale mai avrei fatto - si fa per dire - lo 
						scrittore. Egli ha fermamente voluto che io iscrivessi 
						la mia storia in prima persona: «Dall'alto della sua 
						età, del suo silenzio, e dei suoi soldi», diceva. Spero 
						di non averlo troppo deluso. Infine ringrazio Carlo 
						Rossella, che lo scorso anno disse: «Non va». B.C.       PREFAZIONE di Geminello 
						Alvi     Le tabelle citate da Geminello 
						Alvi sono riportate al termine della 
						prefazione. Gli allegati al testo di 
						Bernardo Capretti sono riprodotti in un'apposita 
						sezione impaginata alla fine, prima 
						dell'appendice. Tutta la documentazione 
						originale relativa ai fatti esposti in 
						questo libro è a disposizione di chiunque abbia interesse a consultarla 
						presso la direzione di Esselunga, via Giambologna 1, 20096 Limito di Pìoltello 
						(Milano).          Per chi scriva come me per 
						mestiere è almeno curioso quanto accade mentre inizio 
						questa prefazione. Il farlo mi colma di orgoglio, e di 
						senso del dovere. Strano sentire, che rende 
						insignificante il resto, e mi fa scrivere con 
						delicatezza di un libro che, alla prima lettura, m'era 
						venuto addirittura quasi di sconsigliare, E invece 
						adesso che ho appena finito di riorganizzarmelo nella 
						mente, m'entusiasma. Perché questo libro di denuncia 
						possiede una tutta sua geometria, nella quale ogni 
						dettaglio si incastra con calma concretezza. Ed è già 
						raro che scrivendo d'argomenti economici ci si riesca. Ma meno consueto è ancora avere 
						il privilegio di vedere incarnate delle idee così 
						concrete e franche in una vita vera. E questo è 
						l'orgoglio: avere ancora davanti il viso tenace, di un 
						tratto infantile e però pervaso di una furia del 
						dettaglio meticolosa, di Bernardo Caprotti. E accorgermi 
						che è l'esempio della sua vita che da ai numeri, e 
						persine alle furie di questo libro, una forza di verità 
						toccante. Altro che i manuali universitari sulla 
						concorrenza o le storie del boom, o gli sproloqui dei 
						convertiti al liberismo. Qui c'è un libro di economia 
						sul bene, e i troppi mali dell'Italia, ma esemplificati 
						nella grande storia di una impresa e di una vita. Perché 
						questo di Caprotti non è un libro di vile polemica 
						politica, di quelle che ogni sera ci tocca di digerire 
						solo aprendo la IV, nello smentirsi reciproco, senza mai 
						prova dei politicanti. È piuttosto uno splendido 
						trattato di economia, O cui criterio di verità è il 
						bilancio di una vita. Chi lo leggerà, se onesto, se ne 
						sentirà contagiato e infine persuaso. Ed eccolo trentaduenne 
						Caprotti, mentre, inorgoglito cogli occhi resi ancora 
						più appuntiti dalla precoce stempiatura, guarda una 
						cassiera che fa bene il suo dovere e digita alla cassa. 
						La foto è vecchia di cinquanta anni, e ritrae lì accanto 
						anche il senatore Mario Crespi, in visita al primo 
						supermarket di Milano, di cui pure lui era azionista. Ma 
						a saltare fuori dal bianco e nero ancora adesso è quella 
						certa posa diritta di Caprotti, complica e compiaciuta; 
						così orgogliosa di come tutto funzioni. Molto potrebbe 
						dirsi di come il modello americano di supermarket fu 
						importato in Italia e del perché ebbe poi 
						successo. Due anni fa è stato pure scritto un agile 
						libro di storia che ne illustra con efficacia le 
						vicende, e spiega quanto siano stati decisivi il via 
						degli americani e i vantaggi d'essere il first mover in 
						questo settore. Tuttavia senza questo viso di 
						Bernardo Caprotti, senza un tenace intento di verità, e 
						quella sua furia del dettaglio che diventa orgoglio per 
						gli altri, non si riuscirebbe, io temo, a capire. La 
						integrazione verticale tra produzione e sistema di 
						vendita, i prezzi competitivi, la standardizzazione: 
						spiegano, certo. Ma senza l'imprenditore Caprotti non si 
						può capire Esselunga; perché essa abbia le più alte 
						vendite per metro quadrato dell'area dell'euro. Peraltro 
						il nostro può dirsi l'ultimo grande nome del boom 
						italiano che ancora amministri una grande impresa. Egli 
						è ormai l'ultimo operoso della generazione 
						d'imprenditori nati tutti nell'anteguerra, che 
						cambiarono l'Italia. L'operosità frugale della Brianza, 
						quanto di tranquillizzante sempre l'accompagna, la 
						lealtà, le minuzie dell'impresa tessile di famiglia 
						erano in lui. Perciò nella epica della grande 
						distribuzione e del miracolo economico egli seppe 
						innestare i migliori caratteri organizzativi, e morali 
						del vecchio agire. Innesto non facile ma agevolato 
						dall'esperimento subito concretissimo di quel giovane 
						della classe 1925, che dal padre viene appunto inviato 
						in America. In Texas prima, quindi meccanico di macchine 
						per la filatura del cotone e telai nel Maine, quindi tra 
						lo scintillio dei grattacieli di New York. E in questo 
						viaggio d'istruzione c'è un'avventura non dissimile da 
						quella di un Adriano Olivetti. La Brianza o il Canavese 
						si rinnovano in America nel loro meglio. E infatti non 
						solo vengono gli inebrianti successi delle industrie 
						tessili tra il 1952 e il 1965. Ma poco più che trentenne 
						Caprotti si lancia pure entusiasta nei supermarket. Si 
						legga qui il bel pezzo nel quale descrive il suo 
						colloquio con la madre e l'annuncio che non sarebbe più 
						tornato ad Albiate. Il fervore dei supermarket, della 
						impresa americana lo contagiarono: «II nuovo business 
						era molto più dinamico, molto più coinvolgente, assai 
						più del tessile, e ben più di quanto non avessi mai 
						pensato». Ma il contagio non dipese soltanto dalle magie 
						della grande distribuzione d'oltreoceano, dei prezzi 
						bassi e della logistica. A rileggersi le sue ripide, 
						sbrigative note su quegli anni ci si sorprende a 
						scoprire l'altro motivo d'un fervore così potente: «Io 
						penso che il secondo fu dato in quegli anni di 
						straordinaria dedizione nei quali si consolidò un grande 
						senso di appartenenza, dì colleganza, di autentica 
						amicizia». Vissuta sempre però colla minuzia della 
						Brianza, sbrigativa ma attenta alle piccole cose, quindi 
						compiaciuta di quanto dicevano in quegli anni due 
						vecchietti, clienti di Esselunga: «Veniamo qui in tram 
						dall'altra parte della città settimanalmente, con quanto 
						risparmiamo possiamo andare al cinema una volta la 
						settimana». In quel sorriso di Caprotti del 1957, c'è 
						insomma ben altro che chiacchiere; c'è un'epica 
						dell'impresa che ha cambiato nel meglio e davvero 
						l'Italia. Ed è questo il motivo più serio che dovrebbe 
						far riflettere i lettori, fargli almeno chiedere perché 
						un uomo così s'è risolto a un simile libro di denuncia. 
						Tra l'altro considerato il suo carattere, ne sono certo, 
						egli assai più volentieri avrebbe avuto tutt'altro da 
						fare. Ma prima di scorrere le 
						statistiche di Esselunga e il resto vale la pena forse 
						di insistere sul suo carattere originale. Da soli i 
						numeri delle più alte vendite per metro quadrato nella 
						grande distribuzione alimentare potrebbero fuorviare il 
						lettore. Le ottimalità di questa impresa non si spiegano 
						solo con indici di produttività astratte, o della 
						standardizzazione. Il genio di Caprotti e del suo 
						management è arte d'attenzione delimitata. Esselunga è 
						quella furia del dettaglio, per la quale si misurano i 
						passi del personale di banco e dei consumatori e di essi 
						si informano gli architetti. Da circa un anno si studia 
						la formula nuova del ragù come nemmeno Fermi per la 
						produzione della bomba atomica. E anche la 
						concentrazione di Esselunga, come vedremo e che spiega 
						questo libro di denuncia, è evoluta a virtù. 
						L'attenzione pignola al dettaglio ha ottimizzato i 
						bilanci; seppur costretti nel territorio. Altri, e gli 
						esempi sono molteplici, nel nostro capitalismo avrebbero 
						peraltro profittato di una cassa così concentrata per 
						allargarsi. La vanità di quasi tutti, banche o imprese, 
						orinai in Italia si poggia su imprese vere quasi nulle, 
						ma gonfiate fino all'inverosimile dalla politica o dalla 
						speculazione. E invece no, una nuova tritatura del ragù 
						vale per Esselunga più di un affare d'Alta Finanza. 
						Abituati come siamo a indici ormai astratti, si rimane 
						così sorpresi delle vecchie e buone maniere di fare. Ma gioverà a questa prefazione 
						anche qualche contabilità più consueta, come quella che 
						misura la produttività, già menzionata peraltro, della 
						rete di vendita (tabella A). Il fatturato 
						complessivo sviluppato, ACV (All Commodity Volumes) 
						nella sigla abbreviata dall'inglese, comprende il largo 
						consumo confezionato, quello non alimentare e i 
						freschissimi. Così questo totale di vendite diviso per 
						le diverse superfici di vendita permette di misurare 
						l'efficienza dei vari gruppi presenti in Italia, e di 
						compararla. Il risultato è che la produttività di 
						Esselunga è stata a fine 2006 più che doppia di quella 
						di multinazionali come Carrefour e Auchan; e superiore 
						di più di tre quarti a quella di Coop Italia. Numeri 
						tanto più notevoli in quanto, cosa rilevante in questo 
						genere di mercati, Esselunga ha una quota di mercato 
						inferiore agli altri tre gruppi. Al 1° gennaio 2007, 
						Auchan copre il 9,3% del mercato, Carrefour il 10,1% e 
						Coop Italia il 17,1%, contro l'8,7% di Esselunga. La 
						quale però sì è adattata a sfruttare la sua quota al 
						massimo, e con migliore efficienza anche delle 
						multinazionali. Riprova che non ci sono dei modelli 
						universali che possano esportarsi con inevitabile 
						successo. Ma neppure nel 1957 agli esordi 
						la Supermarkets Italiani fu affare di mera importazione 
						del modello americano a Milano. Si dovettero plasmare 
						dal niente delle dimensioni organizzative ottimali per 
						quel mercato locale, costruire, addirittura formare i 
						fornitori di acquisti ed approvvigionamenti. E l'impresa 
						dovette essere proseguita con furia del dettaglio e 
						attenzione ai mercati locali indefessa nei cinque 
						decenni seguenti. Tant'è che ormai una "multiprovinciale" 
						come Esselunga funziona adesso molto meglio delle 
						multinazionali. E il successo di quanto di più 
						originale v'è in Esselunga viene dall'evoluzione della 
						rete di vendita. Il peso sul fatturato dei supermarket 
						era del 58,2% nel 2000, all'inizio di quest'anno era 
						calato al 33,3%. A sua volta il fatturato dei superstores è cresciuto dal 41,8% del 2000 al 66,7%. 
						Malgrado tutti gli ostacoli della burocrazia le 
						superfici di vendita sono cresciute verso 2.500 fin 
						oltre i 4.000 metri. Buona parte dei supermercati sono 
						stati insomma trasformati, ma con una formula 
						intermedia, diversa da quella scelta dalla concorrenza. 
						Gli altri hanno aperto negli ultimi anni ipermercati 
						fino a 12.000 metri quadri, con assortimento alimentare 
						non molto diverso da quello dei superstores, ma vendendo 
						anche il non alimentare, il tutto inserito in vasti 
						centri commerciali che erano considerati la formula del 
						futuro. E invece non rendono per metro quadro quanto la 
						soluzione più calibrata e calma, nella tradizione, di 
						Esselunga. Il mercato da ragione infatti alle superfici 
						più vicine alle città e alle direttrici urbane e premia 
						i tempi della spesa. Parcheggi e conta dei passi: ancora 
						la minuzia, l'attenzione al particolare e al locale 
						spiega questo calmo successo. Tra l'altro l'ipermercato 
						vive di una logistica propria come una portaerei deve 
						stoccare i prodotti con costi crescenti. Il superstore 
						invece vive di una logistica sua, ma integrata, che non 
						ha magazzino: e richiede non maggiori superfici 
						ma più ordine, e accuratezza gestionale. Perciò rende 
						meglio degli ipermercati. Ma se le multinazionali possono 
						semmai biasimarsi per le loro scelte di mercato, altro è 
						il discorso circa le cooperative. Se infatti le quote di 
						mercato dei vari gruppi si disaggregano per provincia, 
						si verifica subito quanto poco il confronto sia soltanto 
						una questione economica (tabella B). Le quote di 
						mercato di Coop si concentrano infatti nelle province di 
						Emilia e Romagna e Toscana con proporzioni superiori al 
						50%. Nelle altre province può anche farsi un confronto 
						cogli altri gruppi, ma in un'area, che si concentra 
						nelle regioni rosse e comprende Perugia e la Liguria, le 
						quote restano incomparabili. Ben oltre quindi 
						un'evoluzione imputabile al mercato, o spiegabile in 
						termini di efficienza delle superfici di vendita. Il 77% 
						della quota dì Siena, il 60% di Firenze e il 57% di 
						Modena o Bologna non si spiegano con un'efficienza 
						superiore che non c'è: riguardano la politica. Dove la 
						politica è stata meno permeata dai comunisti, pentiti o 
						meno, queste concentrazioni di quote risultano 
						impensabili. Comunque esse non si verificano con simili 
						livelli in nessuna delle altre province d'Italia. Chi volesse replicare a questa 
						mia constatazione, ridurla a una malevola insinuazione 
						dovrebbe infatti dimostrarci ch'è solo l'economia ovvero 
						l'efficienza a giustificare la sproporzione. Il che 
						abbiamo visto non è. E nemmeno una spiegazione può 
						trovarsi nei prezzi, ovvero nella maggior convenienza 
						della Coop, in queste peraltro sempre meno beate 
						province d'Italia. Basta analizzare gli indici elaborati 
						da Panel International, una azienda francese del tutto 
						indipendente, che fa rilevamenti sui prezzi (tabella 
						C) e comparare i prezzi dei prodotti di Esselunga 
						Milano a via Ripamonti con quelli delle località dove 
						essa non c'è. In altri termini il livello di prezzi di 
						Esselunga Milano, posto uguale a 100, fa da deflatore 
						per i prezzi delle Coop di tutta Italia. Un valore 
						superiore a 100 implica pertanto prezzi superiori delle 
						cooperative, al di sotto inferiori. Ma non è quest'ultimo il nostro 
						caso. Siamo come si vede, già in Emilia e ancor più in 
						Liguria o in Toscana, a prezzi ben superiori nelle 
						cooperative. Può dedursene che non è il libero mercato 
						la spiegazione di quote così elevate. Il sistema Coop 
						lasciato a se stesso costa al consumatore di più, oltre 
						ad essere meno efficiente. Dove c'è più concorrenza ci 
						sono infatti meno cooperative, e viceversa. Insomma non 
						è il mercato a giustificare la cosi abnorme 
						concentrazione delle cooperative. Ma diamoci un'altra riprova: 
						studiamo la situazione dei prezzi in Liguria dove le 
						quote di Coop Italia sono superiori per intenderci a 
						quelle di Reggio Emilia. A Genova siamo a una quota del 
						48%, al 51% a Savona e addirittura al 53% a La Spezia, a 
						fronte di una quota assente o insignificante di 
						Esselunga (tabelle D e E). E verifichiamo quanto 
						costa di più fare la spesa in quattro coop della 
						Liguria, rispetto a una Coop di Sesto Fiorentino o a una 
						Esselunga di Firenze. Siamo a prezzi superiori in media 
						attorno al 15% rispetto alla Coop toscana, e ancora più 
						elevati rispetto alla Esselunga toscana. Lo squilibrio è 
						meno elevato solo per la rilevazione di luglio 2006 
						della Coop di La Spezia. Ma appunto l'apertura di un 
						supermercato estraneo alle cooperative nel giugno di 
						quell'anno ha costretto a una pesante discesa dei 
						prezzi, che malgrado ciò restano alti. Insomma questo 
						incrocio di dati elaborati da una fonte indipendente ci 
						permette la prova del nove. I prezzi sono più alti là 
						dove la quota di Coop Italia è più elevata e c'è meno 
						concorrenza. Non credo che nessuno scrittore 
						di manuali di economia di un qualche pregio si 
						lascerebbe sfuggire esempi numerici come quelli 
						indicati. Quale migliore esemplificazione di cosa sia il 
						mercato, e del perché ostacolarlo sia un male anzitutto 
						per i consumatori? Ma viviamo in un'Italia complicata; e 
						dunque l'accademia che occupa sovente di noia le nostre 
						università si guarderebbe bene dal nuocere a chi 
						comanda. Inoltre i tempi si sono pure essi complicati, e 
						ai numeri si rimprovera sempre più spesso là loro 
						aridità. Si ribatte ad essi, invocando appunto la 
						qualità, quel qualcosa ch'è restato però sempre troppo 
						vago da che Aristotele l'inventò. E tuttavia anche di 
						questa qualità potrebbe darsi una misura accurata ed 
						esaustiva. Ma invece di annoiare il lettore cogli indici 
						di qualità più accurati che l'azienda mi ha mostrato, mi 
						limiterei perlomeno a insinuare un dubbio, per quanto ad 
						esempio riguarda i prodotti più politicamente corretti. 
						I prodotti biologici a marchio Esselunga sono 130 contro 
						75 di Ipercoop, con un peso sui relativi assortimenti 
						dell' 1,3 % per Esselunga e dello 0,6% per Ipercoop 
						(tabella F). Insomma si confermerebbe che il 
						richiamo alla qualità, almeno a quella percepita dai 
						consumatori, è davvero un espediente ambiguo, tentato 
						troppo spesso da chi ne ha meno. Ed eccoci al punto dolente, non 
						tanto, non solo per Bernardo Capretti e i lavoratori di 
						Esselunga. Ma per noi tutti. Giacché spero d'aver messo 
						in condizione il lettore con calma di poter capire il 
						perché di una denuncia. E come mai un ottantenne 
						imprenditore si sia deciso a questa denuncia, di cui tra 
						l'altro non ho ancora introdotto tutti i termini. Ma la 
						comparazione di quote e di prezzi, per parti di Italia, 
						fa già capire chi paghi il prezzo del privilegio. Sono 
						quegli italiani presi in giro con una politica di 
						liberalizzazione che riguarda sempre gli affari degli 
						altri e mai quelli propri. Ed infatti per quanto le 
						norme di privilegio delle cooperative siano illiberali e 
						da liberalizzarsi il governo se ne guarda bene. Mentre 
						la più parte dei giornali s'è abituata a guardare, con 
						mal annoiata ipocrisia, dall'altra parte. In effetti cosa v'è di più sano 
						che la fraternità economica, un sentire assieme epico e 
						attento agli altri, ben oltre il proprio egoismo? E cosa 
						di più ovvio che la Costituzione economica protegga 
						questo movente con una norma che favorisce la 
						cooperazione senza scopo di lucro? Dunque si 
						giustificano sia la deducibilità dell'IRES dalla base 
						imponibile e sia quella degli utili destinati a riserva 
						legale e fondi mutualistici oppure a riserva volontaria. 
						Come ci sta anche la concessione della possibilità del 
						prestito sociale, la raccolta diretta di denaro dai soci 
						consumatori, e a condizioni più vantaggiose rispetto al 
						sistema bancario, anch'essa garantita dal legislatore. Ma Coop Italia con un fatturato 
						di oltre 12 miliardi di euro rientra ancora negli scopi 
						di mutualismo che giustificano i privilegi fiscali, e 
						non solo, di cui gode? Parrebbe molto dubitabile. Si 
						diventa suoi soci con delle procedure automatiche, non 
						diverse in fondo dalle politiche di fidelizzazione 
						operate dagli altri gruppi. E alla posizione soltanto 
						formale dei soci si accompagna tra l'altro la 
						sostanziale estraneità rispetto alla vita societaria, 
						alla sua amministrazione. Partecipano nella media alle 
						assemblee delle cooperative che operano nella grande 
						distribuzione percentuali di soci inferiori all'1 %. Ben 
						poco per corrispondere davvero agli intenti mutualistici 
						pretesi dalla Costituzione e dal legislatore. E lo si è 
						verificato tanto più per quanto riguarda i prezzi, più 
						elevati, e persino i prodotti biologici, minori. Eppure a parità di utile lordo 
						la tassazione delle cooperative incide per il 17%  (fino 
						al 2001 era addirittura il 10%), quella sulle società 
						commerciali per il 43%. E questo dato considera 
						solamente il beneficio fiscale. Non meno rilevante è il 
						privilegio, lo sconto nei finanziamenti: si consideri 
						che sugli interessi del prestito sociale vengono 
						applicate ritenute del 12,5% invece che del 27%. E come 
						sì è verificato cogli altri conti fatti prima, non è che 
						poi questo sovrappiù si traduca in risparmi di prezzo 
						per il consumatore. Costituisce piuttosto una rendita, 
						che in parte colma l'inefficienza del sistema delle 
						Coop. E per un'altra parte retribuisce un sistema di 
						potere, nei suoi sempre più rischiosi e complicati 
						affari, come i recenti casi di Consorte e soci 
						cooperatori hanno a tutti dimostrato. Insomma dire che c'è qualcosa 
						che non torna è a questo punto troppo poco. È far finta 
						di non vedere; andrà forse bene per il propagandista, il 
						politico che per mestiere deve convincere, ovvero 
						fidelizzare, per restare in argomento. Ma tanti fatti 
						messi in fila configurano un sistema di inefficienza, 
						che deve alla politica e non al mercato la sua 
						esistenza. Prezzi più alti; una qualità maggiore 
						soltanto pretesa; privilegi fiscali e di finanziamento; 
						delle quote di mercato immani e che non si ritrovano per 
						altri gruppi in nessun'altra regione di Italia: sono i 
						fatti gravi che giustificano tutto lo sdegno di Bernardo 
						Caprotti nel suo libro. Una insana concenti"azione, che 
						trova pretesto nel mutualismo e ragioni nella politica, 
						sottrae alla competizione buona parte del Paese. Il che 
						è nella grande distribuzione piuttosto paradossale. E 
						non si spiegherebbe che un governo che di continuo parla 
						di liberalizzazione, non badi a eliminare subito questi 
						ostacoli alla concorrenza. Invece si spiega considerando 
						che nel governo è parte importante proprio la parte 
						politica che perpetua il privilegio delle cooperative, 
						ed una strana idea del mutualismo. Peraltro quello della 
						distribuzione è un mercato, come si dice, di prossimità, 
						nel quale la saturazione sotto il profilo territoriale 
						rende impossibile ad altri operatori competere. Ed ecco 
						perché i vari casi elencati in questo libro, di ostacolo 
						all'apertura di supermercati Esselunga proprio e solo in 
						certe regioni aggraverebbero il quadro. La dovizia di 
						documenti e foto è inquietante. Ma il mio mestiere non è 
						l'avvocato, e tanto meno il fare politica. Quanto posso 
						verificare da economista, usando Ì numeri, però basta 
						per capire i dirigenti di Esselunga e il loro rammarico. 
						Non è confortante sfogliare i dossier con le 
						autorizzazioni per aprire a loro negate, ed invece 
						concesse a delle cooperative, meno efficienti e più 
						disutili ai consumatori. Mi sono tenuto in questa 
						prefazione il più possibile ai puri fatti, ed essi 
						nitidamente dimostrano tutte le ragioni di questo libro, 
						che vive, lo si deve ammettere, pure di sdegno. Ma non 
						di pregiudizio. C'è la rabbia dell'onesto, che s'è per 
						una vita applicato al meglio, ha costruito coi fatti 
						l'epica concreta di un bene comune minuto, e tuttavia 
						reso immenso dai consumi cinquantennali di milioni di 
						clienti. Caprotti denuncia una 
						ingiustizia con la stessa passione, che in una vita di 
						lavoro ha messo in opera nella sua grande distribuzione. 
						E però senza un preconcetto rancore politico; giacché 
						egli proprio non fu fascista. E lo stesso può dirsi 
						della sua famiglia, non soltanto in Italia; anche in 
						Francia, «con mio cugino Andre assassinato dai fascisti 
						d'Oltralpe il giorno della liberazione di Parigi». Non 
						vi sarebbe stata in luì quindi alcuna preconcetta 
						avversione. Ma a muoverlo alla ribellione pare piuttosto 
						una sua intenzione continua di libertà, divenuta 
						istinto. Si pensi alle pagine di questo libro nelle 
						quali egli descrive la situazione della industria 
						tessile di famiglia sotto il fascismo: «I telai alla 
						Manifattura Caprotti datavano forse di decenni. Le 
						difficoltà erano anche dovute al fatto che durante il 
						fascismo, per rinnovare gli impiantì, anche per cambiare 
						una sola macchina, un tornio o un telaio per tessere, 
						occorreva il permesso della Camera dei Fasci e delle 
						Corporazioni». Ci verrebbe quindi da dire Corporazioni 
						nere o rosse cambia poco, egli le avversa con la stessa 
						caparbietà di chi non accetta di fermare se stesso e i 
						suoi, di restare indietro. Insomma questo libro è 
						coerente con la sua vita di imprenditore: corporazioni, 
						veti dei piccoli commercianti, o cooperative emiliane: 
						forme diverse di una Italia ipocrita che si perpetua, e 
						muta soltanto per gli sciocchi. Nella storia d'Italia o meglio 
						della penisola dai tempi antichi sì contano due generi 
						di decadenze economiche. La prima fu quella dell'Impero 
						romano, rovinato da una crisi fiscale; quando le 
						conquiste e le estorsioni delle guerre non bastarono più 
						a nutrire le plebi di nullafacenti di Roma. E a 
						mantenere al contempo le legioni. La seconda decadenza 
						fu quella che rovinò le produzioni anzitutto tessili e 
						divenne palese nel '600 come esito dei veti di stagnanti 
						corporazioni. Esse bloccarono il mutamento, elevarono i 
						salari, aprirono ai panni inglesi il futuro. Tasse e corporazioni: i due 
						mali ricorrenti che non c'è bisogno dì essere storici 
						economici per riconoscere anche in questa Italia. Basta 
						essere uomini liberi per sentire come nel presente 
						riviva troppa di quella ipocrisia che già in passato ha 
						rovinato tutto, e generato umiliazioni, povertà e male 
						morale. Anzitutto quella doppiezza per cui si predicano 
						liberalizzazioni ma appunto riguardano sempre gli altri. 
						Mai che neppure si parli di liberalizzare le mutue e 
						smontare l'INPS, eppure ci sono in Italia 15 milioni di 
						pensionati e solo cinquantamila tassisti. Tanto meno si 
						parla di smontare Ì privilegi delle cooperative, nella 
						grande distribuzione, di far calare del dieci per cento 
						il costo della spesa di milioni di consumatori, e così 
						liberalizzarli. Ma ritorniamo alla 
						fisiognomica, al viso nitido nel suo slancio di ordine 
						minuto, del trentaduenne Caprotti. Lo stesso che c'era 
						nel suo viso, poche settimane fa quando lo ho 
						incontrato, posseduto dalla stessa vitalità, che a ben 
						pensarci è un'ansia di libertà. La sua è una fretta di 
						scegliere per dare ordine, forma ad una impresa sentita 
						per gli altri, alla fine credo molto di più di quanto 
						l'invidia degli altri non sia riuscita mai a capire. E 
						interessante a questo riguardo anche la memoria delle 
						rivolte politiche in fabbrica degli anni '70. Quanto 
						egli avversa non sono le parole o gli insulti; ma il 
						disordine, che giunse «a livelli parossistici». Caprotti pare, ed è davvero con 
						l'anima, dentro ognuno dei suoi supermercati a vegliare 
						perché l'economia più sostanziale, quella della massaia, 
						possa svolgersi nel migliore ordine. E fedele a questo 
						intento capisce tutto. Rivelatore il colloquio di quegli 
						anni con un prefetto, capace di intendere solo l'impresa 
						in quanto patrimonio, stock come fosse terra o cosa con 
						peso e valore fisso, eterno. Costui, visto che «lei i 
						soldi li ha», lo invitava a darli, a cedere ai movimenti 
						più riottosi. Ma questa concessione, consigliata anche 
						per ordine pubblico, resta densa di ignoranza economica. 
						Se non c'era bastante productivity of labour, che 
						senso avevano gli aumenti salariali? E infatti, osserva 
						caustico Capretti, poche righe dopo, divennero 
						inflazione. Altra lezione da manuale, perfetta di 
						economia, che smitizza tra l'altro quelle lotte. Nel sacro furore di quei tali 
						che negli anni 70 gli invadono gli uffici, egli 
						riconosce gli stessi modi del fascismo, che non si 
						comportava peggio del facchino che lo insulta, o degli 
						scioperanti che fanno prendere un ictus al povero 
						direttore di Esselunga in Toscana, Per carità, era inevitabile una 
						qualche redistribuzione del reddito negli anni '60. Ma 
						essa non si svolse con ordine, accompagnandosi alla 
						produttività. Fu invece assecondata dalla peggiore 
						politica, quella stessa che verbosa amministra ancora 
						così male tutto, ma sempre parlando troppo. E se invece di giudicarli parte 
						del progresso, lodarli, questi anni 70 si considerassero 
						come esemplari di una nazione mai liberata dai moventi 
						della sua decadenza? Ma davvero un'Italia dove i 
						pensionati e gli statali sommati sono 20 milioni e i 
						lavoratori dipendenti nel settore privato soltanto 13 
						milioni può dirsi emanata dal progresso? O non è pure 
						questa proporzione malata una riprova della identica 
						ipocrisia, di quell'istinto a vivere del lavoro altrui, 
						a proteggersi con la politica che ritroviamo nella 
						denuncia di Capretti? La verità è che sì poi arrivarono 
						la stanchezza degli anni '80 e il crollo a dimostrare la 
						follia dei due decenni trascorsi. Ma gli esiti di quegli 
						anni erano ormai avviati. E un sano equilibrio non venne 
						più ritrovato. Se non a chiacchiere, l'espediente è dire 
						una cosa e fare quella opposta, com'e per le 
						liberalizzazioni. Altri fatti disdicevoli, non 
						bastassero quelli elencati finora, completano però il 
						quadro. Li annotiamo nel loro succedersi, senza che ci 
						sia molto altro da aggiungere. Romano Prodi in Tv, a 
						Porta a porta, il 7 febbraio 2006, tra l'altro non 
						richiesto e con la grazia consueta, disserta sulla 
						grande distribuzione, e spiega: «Sono rimaste le Coop e 
						c'è ancora Esselunga (...) il governo può metterle 
						insieme (...) può fare una politica perché stiano 
						assieme». Senza alcun rispetto per l'età e i meriti di 
						imprenditore di Bernardo Caprotti, viene buttato là 
						insomma il problema della successione, come se Esselunga 
						fosse un pezzo dell'lRI. E non un'azienda con una sua 
						proprietà, dunque nel pieno diritto di essere venduta a 
						discrezione di chi la possiede. E non bastasse, chi si fa poi 
						subito avanti, in recita perfetta? Ma appunto le 
						cooperative. Il presidente di Legacoop Emilia, Paolo 
						Cattabiani, dichiarerà all'Unità il 18 maggio 
						2006: «Se Esselunga fosse messa in vendita 
						sarebbe un diritto e un dovere per noi acquistarla». Che 
						cosa del resto aveva già dichiarato il ministro delle 
						liberalizzazioni Pierluigi Bersani? All'Unità il 
						9 novembre 2004 circa la vendita di Esselunga pure lui 
						spiegava: «Io credo che il sistema amministrativo abbia 
						anche delle leve in mano. Così come il governo (...) di 
						sicuro, nessuno entra in un mercato a dispetto della sua 
						classe dirigente politica, economica». Quale ammissione 
						più sincera? Siamo un Paese in decadenza, 
						anzi peggio: attraversato da delle correnti di decadenza 
						secolari che però si ammantano ora di progressismo con 
						ipocrisia perita e reiterata. E il problema è che tutti 
						lo sanno, e in privato anzi l'ammettono con dovizia 
						d'esempi. Ma poi appena qualcuno ci si sdegni davvero, e 
						dimostri il come e il perché dell'ingiustizia, eccoli i 
						più a dargli dell'ingenuo. Non c'è ipocrisia, privilegio 
						o doppiezza che non sia data in Italia per scontata come 
						ovvia e inevitabile: contro d'essa ben poco vi sarebbe 
						da fare. Se non mettersi d'accordo, accettare quindi 
						infine la spartizione. C'è insomma da noi una vecchiaia 
						di anime tale che tocca a un imprenditore ottantenne di 
						agire per la libertà, sua e degli altri, in un mercato 
						concreto. Di là di ogni spartizione o accordo come 
						quelli che per certo gli avrebbero semplificato la vita, 
						ma che la libertà non accetta. Ed eccomi, caro lettore alla 
						fine, che è poi l'inizio di questo libro, ad essermi 
						anch'io infervorato. Ma almeno mi sono e ho spiegato il 
						perché di quell'orgoglio, e del senso del dovere che mi 
						ha contagiato mentre scrivevo del libro di Caprotti. 
						Non è scritto come gli altri, che sparlano di sfide e 
						globalizzazioni, e nella sua costruzione patisce forse 
						palesi ingenuità. Eppure le sue parole sono tutte vere 
						ed oneste, di squillante lealtà, come deve accadere 
						appunto in un libro di denuncia sentito «come un 
						impellente dovere civile». E con consapevolezza totale, 
						«scritto contro il parere dei miei consulenti. So già 
						che mi costerà incomprensioni. Non importa. I 
						consumatori devono sapere che la loro libertà di scelta 
						è in pericolo e che, di questo passo, potrebbe diventare 
						teorica». Mi ha convinto, ha ragione lui. 
						
						 
						 
						   
						 
						
						 
						 
						 
						
						 
						 
						     
						             Dedico questa mia 
						non piccola fatica ai molti giovani 
						di Esselunga che lavorano con 
						tanto impegno, con passione e 
						onestà. E che crescono 
						i loro figli nella speranza 
						di un'Italia migliore. Più libera e 
						moderna. Più sorridente e 
						più pulita.   Con un grande 
						abbraccio   Bernardo Caprotti.       LE MIE RAGIONI         Nell'autunno del 2006, dopo due 
						anni di attacchi da parte di Coop all'Esselunga ed alla 
						mia persona, dei quali sul finire del testo daremo 
						notizia, io, anzi noi, decidiamo di fare chiarezza, a 
						mezzo stampa, dicendo le nostre ragioni. Nossignori: come definisce 
						Giuliano Poletti, presidente di Legacoop - che vedremo 
						fotografato al Quirinale col presidente della 
						Repubblica, Giorgio Napolitano - il nostro chiarimento? 
						«Un attacco (sic!, ndr) ingiustificato, che non 
						può restare senza risposta». E Aldo Soldi, presidente 
						dell'ANCC, Associazione Nazionale Cooperative di 
						Consumatori: «La reazione dì Esselunga è stata 
						eccessiva», è una «levata di scudi, per di più con toni 
						arroganti e polemici...». E allora, nella mia lettera del
						1° dicembre 2006 
						a Soldi, ho scritto: «La verità è che due anni di 
						indecente gazzarra da Lei montata - a fini che a me son 
						ben chiari - sulla nostra azienda e sul suo buon nome, 
						hanno messo in allarme ministri, professori, 
						presidenti... ed anche Vecchioni (Federico Vecchioni, 
						presidente nazionale di Confagricoltura, ndr). E noi 
						abbiamo dovuto rispondere. La vostra capacità di mentire 
						e di ribaltare la realtà è illimitata. A me spiace, mi 
						spiace veramente che Lei mi costringa a fare qualcosa 
						che non avrei mai immaginato. Rivelerò a molti ingenui, 
						a tante persone in buona fede, chi veramente siete. Lei, 
						Soldi, mi ci avrà costretto». Questa è la ragione del mio 
						scritto, questa è stata la mia promessa.         PERMETTE? MI 
						PRESENTO   Mi chiamo Bernardo Capretti, 
						sono nato a Milano nell'ottobre 1925. Mi sono sempre 
						sentito figlio e cittadino della Brianza, di quel 
						particolare territorio che Sta fra Monza ed il lago di 
						Como nel quale i miei vecchi per lunghi anni hanno 
						tessuto e filato cottoni: così, nella 
						corrispondenza di oltre 150 anni fa, loro chiamavano il 
						cotone, giacché con l'industrializzazione l'inglese 
						cotton venne a sostituire l'italiano bambagia, 
						parola oggi incredibilmente dimenticata1, 
						usata già nel Milione di Marco Polo, anno 1298. 
						Là, con alterne fortune, stringendo i denti nei periodi 
						di magra, quando come ultime risorse rimanevano gli 
						affìtti delle terre e l'allevamento del baco da seta, ha 
						operato per sci generazioni la mia famiglia. Mio padre, Giuseppe, era un 
						"ragazzo del '99", apparteneva cioè a quella classe che, 
						dopo Caporetto, fu mandata in guerra a 17 anni per 
						rimpolpare le armate del re. Era stato educato "in 
						tedesco". Aveva cominciato a 10 anni come allievo 
						dell'ancor oggi notissimo Rosenberg Institut di San 
						Gallo in Svizzera, dove trascorse quattro anni. Sua 
						nonna era tedesca e l'influenza tedesca e francese erano 
						allora prevalenti in Italia. L'Inghilterra era tanto 
						lontana. Da mio padre e da mia nonna 
						Bettina ho imparato il culto della libertà, 
						dell'indipendenza e la passione per le visual arts,
						architettura, pittura, grafica, e... l'ossobuco 
						fatto con un'ombra di acciuga. Mia madre, francese, e 
						mia nonna, alsaziana, mi trasmisero l'inclinazione per 
						la musica e per Molière, l'avversione per les Bockes
						(così venivano chiamati i tedeschi fin dai tempi di 
						Luigi XIV) ed il culto dei soufflé. Se l'Esselunga è 
						quello che è, forse lo si deve anche a questo. Da mio padre appresi i 
						fondamentali valori borghesi, la centralità e la 
						continuità dell'impresa, la frugalità, il rispetto della 
						parola data. Ed anche la passione per la caccia e 
						l'amore per i cani. Ad Albiate, nella nostra tanto amata 
						proprietà in Brianza, arrivavamo ad averne anche dieci 
						contemporaneamente. Era un antifascista vorrei dire 
						accanito; alla vigilia della guerra era rimasto quasi 
						solo: lui, l'amico Nanni Falck delle omonime acciaierie 
						ed i Tanzi, agenti di cambio che erano nostri vicini di 
						casa ad Albiate. Bisogna dire la verità: tutta la 
						borghesia era fascista, potrei fare la lista dei nomi. 
						Riaffiorano le interminabili discussioni che mio padre 
						intavolava, E ricordo la sua disperazione ai tempi della 
						guerra d'Abissinia - ero un ragazzino di 11 anni - 
						perché andavamo contro un membro della Società delle 
						Nazioni per conquistare una sassaia. Invece di 
						modernizzare le Calabrie, andavamo a spendere cifre 
						pazzesche per colonizzare un Paese di pietre. Poi furono promulgate le leggi 
						razziali. La grandissima parte degli agenti della 
						Caprotti - ed anche molti clienti - erano ebrei. Alcuni 
						erano anche amici che venivano spesso per casa e mi 
						avevano tenuto, ragazzino, sulle loro ginocchia. Così 
						vivemmo proprio da vicino quella spaventosa, dissennata 
						tragedia.    1 
						Un tempo si diceva di certuni: "Nato nella 
						bambagia". Forse oggi nascono nel cotone idrofilo, e si 
						spiega così perché non ci sono più signori.   Ho vivido il ricordo della 
						dichiarazione di guerra del giugno 1940. Ero al Tennis 
						Club Milano di via Generale Arimondi e stavo prendendo 
						lezione dal grande Del Bello. A metà pomeriggio, sui 
						campi il giuoco si fermò. Si fece improvvisamente 
						silenzio perché stava per parlare il Duce, e quando il 
						Duce parlava l'Italia si fermava. Tutti gli 
						altoparlanti, anche al Tennis Club, dovevano trasmettere 
						il suo verbo. Sentii lì, sul campo da tennis, la 
						dichiarazione di guerra alle «democrazie plutocratiche e 
						reazionarie dell'Occidente», alla Francia ed 
						all'Inghilterra, pronunciata da questo maestro di scuola 
						di provincia che non sapeva quello che faceva, che 
						sarebbe morto senza aver mai visto niente, neppure 
						Londra o Parigi. Tomai a casa piangendo. Sul 
						tram regnava un silenzio assoluto. Milano era attonita: 
						di colpo gli italiani si rendevano conto della 
						catastrofe annunciata, dopo l'ubriacatura delle adunate 
						e delle acclamazioni, dopo dieci anni di pazzia. 
						Mia nonna Fernande era venuta dalla Francia in visita a 
						sua figlia, mia mamma, com'era solita fare ogni anno in 
						tarda primavera. L'accompagnammo al treno nelle poche 
						ore di moratoria successive al proclama. Partì 
						precipitosamente. Nessuno di noi immaginava che per sei 
						anni non l'avremmo più rivista. Né potevamo immaginare 
						che, il giorno in cui l'avremmo rivista, poco o nulla 
						sarebbe rimasto di quella che era stata la nostra 
						famiglia di Francia, con mio cugino Andre assassinato 
						dai fascisti d'Oltralpe il giorno della liberazione di 
						Parigi. C'è un sepolcro abbandonato lassù, nei Vosgi, in 
						quel cimitero in cima alla collina... Mio padre già da 
						tre o quattr'anni mi aveva indirizzato allo studio 
						dell'inglese. «La Germania farà la guerra e la perderà; 
						vincerà l'Inghilterra e l'inglese sarà la lingua di 
						domani», diceva, lui che era stato educato "in tedesco" 
						e non era mai stato in America! All'America non pensava 
						neppure. Il francese e l'inglese sono stati la mia 
						grande ricchezza, l'accesso alle letture, 
						all'informazione, al teatro. Trascorsi il primo periodo 
						della mia vita in varie scuole e finii, nei primi anni 
						di guerra, tra il Parini ed il Berchet, due prestigiosi 
						licei pubblici, il secondo dei quali sfollato a Carate 
						Brianza dopo i primi bombardamenti su Milano 
						dell'ottobre 1942, In Brianza, nella nostra casa di Albiate, passammo gli ultimi due anni di guerra ed ogni 
						sera ascoltavamo religiosamente Radio Londra, dalla 
						quale apprendevamo le proibitissime notizie dai fronti. Con l'orecchio incollato a 
						Radio Londra, nacque la mia prima avversione verso i 
						comunisti: lì drammaticamente seguimmo la tragedia della 
						rivolta di Varsavia. Nell'estate del '44, quando le 
						armate dei marescialli Rokossovskij e Zhukov furono ad 
						una manciata di chilometri dalla capitale polacca, venne 
						dato il segnale della rivolta. Ad un tiro da Varsavia, 
						le truppe sovietiche si fermarono per oltre due mesi, 
						col pretesto che erano stanche per l'avanzata. I 
						tedeschi trucidarono duecentomila polacchi, Hitler mise 
						Varsavia a ferro e fuoco e quando tutto fu finito, in 
						ottobre, Stalin diede l'ordine di riprendere la marcia, 
						E l'Armata Rossa prese solo delle rovine. Per poi 
						insediarvi un governo fantoccio2.   2 
						A questa nefandezza, seguiranno gli eccidi del '45, le 
						foibe, Togliatti favorevole a una Trieste iugoslava. A 
						Praga, il ministro degli Esteri, Jan Masarik - figlio 
						del presidente Masarik ed unico membro, non comunista, 
						del governo - "cade" dalla finestra del suo ufficio e 
						muore; il seguito è noto. I nostri prigionieri di guerra 
						in Russia sono ostacolati nel loro ritorno, addirittura 
						querelati dal comunista Edoardo D'Onofrio che, dopo aver 
						perso nelle aule di giustizia, fu nominato 
						vicepresidente della Camera. E fra fanti altri episodi, 
						quello vigliacchissimo delle fosse di Katyn: 25.000 
						ufficiali dell'esercito polacco prigionieri di guerra 
						trucidati con un colpo alla nuca nella foresta di Katyn: 
						e l'intera classe dirigente di una nazione viene 
						eliminata. Facendo credere per anni 
						che anche stavolta gli assassini erano stati i tedeschi. 
						Il tutto censurato fino a oggi da una "informazione" e 
						da una scuola quantomeno conniventi. La mia curiosità, 
						il mio bisogno di capire, mi spinsero più volte allora, 
						oltre quarant'anni fa, a Berlino e a Mosca. E mi bastò. 
						Né mi ci vollero cinquant'anni per accorgermi che a 
						Budapest, nel '56, i russi avevano commesso una violenza 
						costata altre 25.000 eroiche vittime. Violenza 
						giustificata e condivisa dai "compagni" nostrani.   A Radio Londra ascoltavamo la 
						disperazione degli inglesi, che con i loro aerei 
						mandavano aiuti, medicinali, armi e viveri, agli 
						insorti. Noi eravamo antifascisti, ma lì mi si insinuò 
						il primo dubbio. Che poi trovò una larga, larghissima 
						affermazione negli anni del dopoguerra, quando andavamo 
						in piazza del Duomo o in piazza Cavour, a Milano, 
						a discutere ed a prenderci a calci con i comunisti. 
						Perché noi eravamo prima di tutto uomini liberi, e poi 
						filoamericani, veri paladini della libertà. Il periodo del dopoguerra fu 
						fulgido e ricco di speranze di un'autentica convivenza 
						democratica. Uomini liberi, come Alcide De Gasperi, 
						Carlo Sforza, Giuseppe Saragat, Luigi Einaudi, 
						dominavano la scena e facevano da baluardo ad un altro, 
						spaventoso totalitarismo. Furono anche gli anni del boom 
						economico. Nuove tecnologie, nuovi prodotti, nuove 
						aziende. Gli anni del fascismo erano stati gli anni 
						dell'autarchia ed il Paese, chiuso in se stesso, aveva 
						saltato tutta un'era di progresso tecnologico. I telai alla Manifattura 
						Caprotti datavano forse di decenni. Le difficoltà erano 
						tra l'altro dovute al fatto che durante il fascismo, per 
						rinnovare gli impianti, anche per cambiare una sola 
						macchina, un tornio o un telaio per tessere, occorreva 
						il permesso della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. 
						Cosa non facile da ottenere per un uomo, Giuseppe Caprotti, che non portava all'occhiello la cimice, cioè 
						il distintivo fascista, né tanto meno la camicia nera. 
						Per gli industriali che vestivano l'orbace, tutto era 
						più facile. Cosi mio padre nel primo 
						dopoguerra si diede un gran daffare per rinnovare gli 
						impianti. Dai due telai non automatici per tessitrice si 
						poteva passare ad un'assegnazione di 16 telai 
						automatici, e questo non certo aumentando il carico di 
						lavoro, ma con un incremento esponenziale della 
						produttività. Ecco ciò che ha fatto le fortune dei Paesi 
						e delle imprese che ci si sono messi. Purtroppo, la 
						documentazione è andata perduta con la fine della 
						Manifattura Caprotti, ma dovetti assistere allora ad una 
						battaglia coi sindacati, e segnatamente con la CGIL che, 
						tipicamente ancorata ad un progressismo ottocentesco, in 
						realtà al progresso si opponeva. In ogni caso, dopo un 
						anno di scioperi, "agitazioni", picchetti e bandiere 
						rosse, mio padre la spuntò e la Caprotti divenne, tra la 
						fine degli anni '40 e gli anni '50, una delle aziende 
						più moderne del Paese. Il successo si riassumeva 
						allora come oggi in un solo concetto: produttività; 
						parola peraltro misteriosa che molti, anche fra gli 
						addetti ai lavori, confondono con la produzione o con la 
						capacità produttiva. Produttività è anch'essa una facile 
						parola americana che esprime un rapporto: output, per 
						man-hour. E le nostre tessitrici passarono dagli 
						zoccoli ai "calzett de seda". Coi sindacati fu allora una 
						lotta durissima, ma per me una prima utile esperienza 
						per quello che si sarebbe ripetuto 20-30 anni dopo. Conseguita la laurea, mio padre 
						decise che sarei andato in America, dove trascorsi 
						l'intero 1951. Già ero stato in fabbrica e per due anni, 
						durante gli studi all'Università Statale, avevo 
						frequentato i corsi serali di meccanotessile al 
						Politecnico di Milano: sapevo bene che cos'era un "raso 
						da quattro" e come sia impossibile "ordire una trama"3. 
						Allora il marketing non esisteva. L'importante 
						nell'industria era la fabbrica. E così che mio papa mi 
						mandò negli Stati Uniti presso alcuni produttori di 
						macchinari tessili. Iniziai però dalla materia 
						prima, dal cotone, a Houston Texas, e più precisamente 
						nella Classing Room di Anderson Clayton - 
						marketer di cotoni - al porto di Galveston, sul 
						Golfo del Messico, donde venivano spediti i cotoni 
						americani. Feci poi il montatore meccanico di macchine 
						per la filatura del cotone e di telai per tessere, nel 
						Maine e nel Massachusetts. Fare il meccanico mi piaceva 
						moltissimo. Già da ragazzo mi divertivo con gli 
						chauffeur di mio padre a montare i motori delle sue 
						Lancia, erano più le ore che passavo in garage di quelle 
						spese sui libri di scuola. L'America per me è stata 
						fondamentale. Era un altro mondo ed era, il Texas in 
						particolare, terribilmente lontano. La partenza per l'America 
						costituì prima di tutto un doloroso distacco dalla mia 
						vita di Milano. Col vagone letto andai a Parigi dove 
						feci due giorni di decompressione con la mia nonna di 
						Francia. Poi presi il boat train alla Gare du
						Nord; erano treni dedicati ad ogni singola nave ed 
						andavano a finire sulla banchina del porto di Le Havre, 
						proprio lungo la fiancata del transatlantico pronto per 
						la traversata. Non c'erano problemi di sicurezza, 
						allora, e gli accompagnatori salivano tranquillamente a 
						bordo. Poi, forse un'ora prima che i rimorchiatori 
						iniziassero a condurre la nave fuori dal porto, gli 
						accompagnatori venivano invitati a scendere e stavano 
						sulla banchina a sventolare il fazzoletto. Ricordo la 
						mia nonna, piccolissima, laggiù... Si piangeva, perché allora 
						partire voleva davvero dire mourir un peu. L'arrivo a New York - in 
						quell'occasione di primo mattino, nello scintillio dei 
						grattacieli e con tutte le navi presenti in porto che 
						suonavano le loro sirene per salutare il transatlantico 
						che arrivava - era un'emozione grandissima. Due giorni a New York per 
						un'ulteriore decompressione coi cugini americani di mia 
						madre, e poi via, Due giorni e due notti di treno. Da 
						New York a Houston Texas, via Kansas City.    3 
						In sintesi, la tessitura si fa inserendo la trama 
						nell'ordito, cioè tramando un ordito, non ordendo una 
						trama.    Quell'anno trascorso negli 
						Stati Uniti mi insegnò a lavorare. Forse incline al 
						pragmatismo per natura, certamente pragmatico lo sono 
						divenuto. Io, e noi in Esselunga, siamo eminentemente 
						pragmatici. Vogliamo vedere, toccare le cose, prima di 
						prendere qualsiasi decisione. Prima di adottare nuove 
						strategie, nuovi strumenti, proviamo e riproviamo. 
						Sembra un modo di lavorare faticoso, in realtà rende 
						tutto più semplice e, a mio modo di vedere, evita molti 
						errori. In America, la prima 
						esperienza, che si rivelerà poi molto importante, fu la 
						scoperta del supermercato. La 
						Anderson Clayton, dopo due 
						notti di albergo, mi sistemò in una tipica casa 
						americana alla periferia di Houston con un danese e due 
						svedesi, anch'essi in America per "imparare i cotoni". 
						Subito, la prima sera, mi portarono a vedere questo 
						negozio, nuovo anche per loro, poiché in tutta Europa 
						non esisteva ancora nulla del genere, ed anche per 
						l'America era una novità: il supermarket. Solo sei anni dopo avrei avuto 
						l'opportunità di' partecipare alla fondazione della Supermarkets Italiani Spa, sapendo di che cosa si 
						trattava. Tornai in Europa col Queen 
						Elizabeth, il più grande transatlantico di allora, 
						83.000 tonnellate, ed arrivai in una Parigi nera - Andre 
						Malraux, ministro della Cultura, inizierà a lavarla 
						solo dieci anni dopo - e buia. Dopo lo scintillio 
						dell'America, mi si strinse il cuore, ti taxi era una 
						vecchia Citroen traction avant disegnata da Andre 
						Citroen all'inizio degli anni '30. Non ci stavano 
						neppure le valigie. Dopo il Natale ad Albiate ed il 
						Capodanno a Cortina, il 2 gennaio 19.52, alle 7 del 
						mattino, feci il mio ingresso nell'azienda di famiglia, 
						più precisamente nella tessitura di Macherio ed iniziai 
						la mia vita di lavoro. Lì, proprio lì, Esselunga ha 
						appena aperto uno stupendo superstore, opera dell'amico 
						Gigi Caccia Dominioni. Sei mesi più tardi, con 
						l'improvvisa e tragica perdita di mio padre, dovetti, 
						pur nell'immenso dolore, affrontare il primo ostacolo 
						della vita. A 26 anni mi trovavo alla testa di 
						un'azienda in piena evoluzione. Ma superati i primi due 
						anni di affanni e di grandi timori, raccoglievo, ed era 
						un gran privilegio, il successo di mio papà alla guida 
						della vecchia, rinomata ditta, ormai divenuta 
						modernissima. I timori cessarono, rimasero gli affanni. Così passai quegli anni nel 
						tessile. Dal 1952 al 1965. Poi le circostanze della vita 
						mi portarono lontano dal mio mondo d'origine e da tutto 
						ciò per cui avevo avuto una preparazione specifica. Benché già allora il lavoro e 
						l'impresa avessero in me una posizione centrale, 
						conducevo una vita normale: di amici, di weekend al 
						Forte, a Parigi, l'inverno lo sci a Zermatt o a Davos. A 
						Milano qualche prima alla Scala, qualche cocktail e 
						molto "Piccolo Bar", insomma una vita normale. Solo più tardi il mio ritmo 
						cambiò. E se devo ringraziare Dio dall'avermi distolto 
						dal cotone, posso anche asserire che quel successo che 
						oggi, ormai, mi si attribuisce è frutto di un impegno 
						totalizzante che ha comportato se non dei sacrifici - i 
						sacrifici sono ben altra cosa - certamente molte 
						rinunce. Il primo addio fu allo sci, mi piaceva tanto... 
						 Ma il lavoro del sabato me lo rese impossibile per 
						troppi anni, fino ad una rassegnata definitiva rinuncia. 
						E così via via mi negai forse troppi interessi, con 
						eccessivo sacrificio anche dei miei familiari. Pur abitando a 200 metri dalla 
						Scala e disponendo da sempre di un palco in "Turno A e 
						prime", dal quale, nel maggio del '46, avevo assistito 
						coi mici genitori al concerto di Toscanini per la 
						riapertura del teatro, non ci misi più piede. Quante 
						volte mia madre mi diceva: «Vieni, domani c'è la 
						Callas». Mai sentita né vista la Callas dal vivo. La 
						musica comporta una partecipazione ed un apporto 
						personale: non si può ascoltare la musica nel vuoto 
						della stanchezza. Nel 1957 si presentò un'opportunità 
						che, qualche 
						anno dopo, avrebbe cambiato la mia vita. Il merito fu di 
						Marco Brunelli, scaltro uomo d'affari, poi mio 
						avversario. Mio fratello Guido e Brunelli, a Saint 
						Moritz per il weekend, avevano sentito casualmente, nei 
						saloni dell'hotel Palace, i due fratelli Brustio 
						(entrambi al top della Rinascente, Micio Borletti 
						essendone presidente) discutere del fatto che certi 
						americani avevano loro proposto di entrare in società 
						con Nelson Rockefeller per aprire dei superrnercati in 
						Italia. Naturalmente, loro - erano la Rinascente! - 
						volevano avere la maggioranza. Essendo gente dì 
						provincia, non sapevano che mister Rockefeller era un 
						nipote di quel signore che aveva, si può dire, inventato 
						il petrolio, il fondatore della Standard Oil, la Esso5. 
						Per chi fosse stato in America ed avesse visto anche 
						solo il Rockefeller Center, poteva far sorridere il 
						pensiero di volersi associare a quel signore pretendendo 
						la maggioranza. Ci sostituimmo alla Rinascente 
						accettando d'essere minoranza. Brunelli mise assieme i 
						Caprotti, industriali tessili della Brianza (ero l'unico 
						che parlava l'inglese, ma più di questa gran qualità non 
						avevo) col 18%, i Crespi, proprietari del Corriere 
						della Sera, col 16%, se stesso col 10%; inoltre la 
						principessa Laetitia Boncompagni Pecci Blunt, cara amica 
						di Nelson Rockefeller, e l'amministratore dei Crespi, 
						Franco Bettolini, con partecipazioni minori. Rockefeller deteneva il 51%, la 
						nostra compagine il restante 49. Brunelli era 
						presidente, io vice, mentre era americano il management. 
						Da loro, in Consiglio d'amministrazione, imparai che 
						cos'è la democrazia. Ci riunivamo forse due volte al 
						mese e non c'era decisione che la maggioranza prendesse 
						senza convocare e consultare la minoranza. Noi fummo 
						coinvolti dagli americani in ogni scelta, anche la meno 
						importante. La Supermarkets Italiani Spa fu 
						fondata il 13 aprile 1957 ed il primo negozio, sotto 
						l'insegna Supermarket, fu aperto nel novembre di quello 
						stesso anno a Milano, in viale Regina Giovanna. Il punto di vendita era pronto 
						dall'estate, ma gli americani non si decidevano ad 
						aprirlo. Noi insistevamo con Richard Boogaart, 
						amministratore delegato e vero motore dell'impresa.
						«Why don't you open it?», 
						gli chiedevamo, perché non lo aprite? Perché non 
						era pronta la warehouse, il centro di 
						distribuzione, rispondeva.    5 
						II nonno, John D. Rockefeller, era stato uno dei grandi 
						tycoon, cioè uno di quegli imprenditori che, tra fine 
						'800 e inizi '900, rifondarono il capitalismo americano: 
						Ford l'automobile, Carnegie l'acciaio, Morgan la 
						finanza, Vanderbilt le ferrovie. Erano quelli anche gli 
						anni nei quali l'America, soprattutto Chicago, 
						inventava l'architettura moderna. Otis progettava 
						l'ascensore. Singer la macchina da cucire e Thomas 
						Edison illuminava il mondo. Edison e Ford erano  
						grandi amici.    Era un negozietto di 500 metri 
						quadrati di vendita, gli articoli erano forse duemila, 
						una cosa minuscola; ma senza il centro di distribuzione 
						non si poteva operare. Lì c'era in nuce tutto il modello 
						di business come noi lo intendiamo. Ci vollero quattro anni per 
						aprire cinque o sei supermarket a Milano; e nel 
						febbraio del 1961 il primo a Firenze. Nel 1960 si scatenò una serie 
						di offerte per comprare il 51% dei Rockefeller. Anche 
						Brunelli, che nel frattempo, pur essendo socio e 
						presidente della Supermarkets Italiani, aveva fondato La 
						Romana Supermarket - ora GS - fece un'offerta agli 
						americani. Già infastidito com'ero per La Romana, questo 
						atto mi disturbò proprio moltissimo. Rilanciammo con una 
						controfferta ultimativa: cinque milioni di dollari per 
						una piantina, un seme, un niente. E comprammo la loro 
						quota per questa somma tremenda. Un affarone per gli 
						americani, che però avevano raggiunto anche un altro 
						degli intenti di Nelson Rockefeller, il repubblicano liberal: quello di diffondere il germe della 
						modernizzazione in un Paese in via di sviluppo. La sua 
						società, quotata allo Stock Exchange di New York, si 
						chiamava IBEC, International Basic Economy Corporation: 
						compagnia per l'economia di base. La trattativa per l'acquisto 
						del 51% iniziò nel luglio del '60 per chiudersi nel 
						febbraio del '61, all'UBS, l'Union des Banques 
						Suisses, di Ginevra e poi davanti al console italiano 
						Alessandro Pietromarchi. Era una cosa ufficiale. A 
						Ginevra stavano i legali di Rockefeller e là erano 
						depositati i titoli azionari oggetto della transazione. Andai a Ginevra in treno e nel 
						portafoglio avevo un assegno di 4 milioni di dollari 
						tratto sulla Banca del Gottardo, l'istituto svizzero del 
						Banco Ambrosiano. Lo avevo ricevuto dalle mani di 
						Roberto Calvi, all'epoca segretario dì Carlo Canesi, 
						presidente dell'Ambrosiano. Banca fantastica a quei 
						tempi, la vera banca di famiglia, poi trascinata in un 
						disastro. La compravendita con gli 
						americani aveva comportato un contratto di management 
						della durata di cinque anni con il pagamento dilazionato 
						dell'ultimo milione e con royalties sugli utili, 
						a carico della Supermarkets ed a favore di IBEC. Questo 
						assicurava ai venditori che noi non avremmo fatto fare 
						una brutta figura a Rockefeller, allora governatore 
						dello Stato di New York - poi vicepresidente degli Stati 
						Uniti - ed a noi la conduzione dell'azienda, almeno per 
						un primo periodo. Le cose girarono diversamente. 
						A tre mesi dalla conclusione del contratto, nella 
						primavera del 1961, Richard Boogaart, come già detto 
						motore di tutta l'iniziativa, fu richiamato in patria 
						per essere spedito in Argentina. Lo sostituirono con una 
						pallida figura che condusse l'azienda nel niente. Gli 
						utili e le conseguenti royalties venivano 
						gonfiati. Nessun piano di sviluppo venne più messo in 
						cantiere ed io iniziai a reclamare con IBEC. Così, nel 1963, in 
						un'estenuante trattativa condotta a Ginevra, imparai il 
						verbo disassociate. Ci lasciammo, ma la pallida 
						figura ed altri funzionari italiani rimasero: non c'era 
						altro management. Finché nel luglio del '65, messo in 
						guardia dal dottor Franco Villa, direttore 
						amministrativo ed amabile consigliere per tanti anni, 
						circa lo stato di abbandono in cui sì trovava l'azienda, 
						non fui costretto ad assumere la carica di 
						amministratore delegato. Di distribuzione sapevo poco o 
						nulla, ma consideravo il mio impegno personale una 
						soluzione provvisoria. Ero lontano dal!'immaginare che 
						nel giro di uno o due anni sarei stato colpito dal 
						bacillo del retail. Una sera, pranzando con mia 
						madre, ricordo che le dissi - emozionato - che non sarei 
						mai più tornato ad Albiate alla Manifattura. Il nuovo 
						business era molto più dinamico, molto più coinvolgente, 
						assai più del tessile, e ben più di quanto non avessi 
						mai pensato. Quella seconda metà degli anni 
						'60, i primi della mia guida, si svolsero nel trantran 
						quotidiano di un'azienda molto piccola. Ogni mattino ci 
						incontravamo tutti alle 7 in un negozio diverso per poi 
						separarci: chi andava per negozi, chi in ufficio, chi 
						nei cantieri. Il pomeriggio lo trascorrevo 
						prevalentemente nei negozi o andando in giro a cercare 
						ubicazioni per nuove aperture. Se gli americani avevano dato 
						la prima piega, stabilendo quei pochi ma inviolabili 
						principi sui quali sì fonda ancor oggi la nostra 
						affermazione, io penso che la seconda fu data da quegli 
						anni dì straordinaria dedizione, nei quali si consolidò 
						un grande senso di appartenenza, di colleganza, di 
						autentica amicizia. Se però noi avevamo acquistato 
						il 51% della IBEC e la partecipazione minoritaria di 
						Laetitia Boncompagni, Brunelli aveva comprato il resto, 
						raccogliendo così oltre il 29% del capitale sociale. Non 
						mancarono i contrasti e bello sarebbe raccontare come si 
						svolse e si spense l'assistenza del nostro legale, il 
						preclaro Adolfo Tino; o l'exploit del giovane Guido 
						Rossi, per breve tempo consigliere di amministrazione 
						della Superrnarkets Italiani per conto di Brunelli. Ma 
						questa sarebbe un'altra storia, una storia che ci 
						porterebbe a La Centrale Finanziaria Generale, a Michele 
						Sindona, al grande Carlo Bombieri, amministratore 
						delegato della Banca Commerciale Italiana e ultimo 
						banchiere, al mitico Charles Fitzmorris6, ai 
						Sainsbury, la cui frequentazione avrebbe aperto nuove 
						visioni al nostro modo di condurre il business. È una storia che forse, se Dio 
						me ne darà voglia e tempo, potrei anche scrivere. Ma questa non è la storia di 
						Capretti e neppure la storia di Esselunga. Questa è una 
						storia di cassa e martello, perché e della cassa che qua 
						dobbiamo parlare. Una cosa che un tempo era onesta e 
						dichiarata, alla luce del sole. Era quasi bello, in 
						occasione delle elezioni, leggere sul Corriere 
						che Achille Occhietto, il segretario del "Partito", 
						faceva visita ai "suoi" ipermercati dell'Emilia... Trattandosi dunque qui dì 
						questa storia e non di altro, devo ancora abusare 
						dell'altrui pazienta nel riferire la straordinaria 
						esperienza fatta coi sindacati - più particolarmente con 
						CGIL - ed i miei primi contatti con Coop. 
						 6 
						Solo per chi volesse meglio capire gli accadimenti del 
						1989-1990 e delle forze che ci eravamo costituiti quasi 
						inconsapevolmente in quei due decenni, mi dilungo in 
						questa nota. Charlie era un gentiluomo di 
						Chicago, con un tocco di classe e un buon francese, che 
						nel nebbioso dicembre del 1970 scese fortunosamente - 
						era amico di amici - dal cielo e cambiò la nostra vita. Charlie Fitzmorris aveva 
						venduto la sua catena di supermercati a Burlington Iowa, 
						ma s'era tenuto la proprietà dei sistemi informatici che 
						là, nel suo business, aveva inventato.  Erano la 
						quintessenza del pragmatismo. Erano stati concepiti, per 
						così dire, dal di sotto, dagli utilizzatori, non da 
						informatici puri. Erano fantastici e lo sono ancora. 
						Voleva venderli e noi, per l'Italia, li acquistammo in 
						esclusiva. E questi li pagammo. Ma lui si portava dietro 
						anche una pacchetto di conoscenze, di expertise,  
						che volentieri ci trasmise, subito e poi nel corso degli 
						anni, grazie a una simpatia reciproca dalla quale nacque 
						una grande, grandissima amicizia. Ciò favorì enormemente le 
						nostre tendenze all'innovazione, ci evitò i madornali 
						errori che vedevamo compiere da altri, e ci consentì 
						quel salto in avanti che ci avrebbe poi salvato. 
						Informatica, logistica, magazzini di stoccaggio e 
						distribuzione, accesso e collaborazione con aziende 
						allora avanzatissime in California, Illinois e upstate 
						New York, furono i propellenti che consentirono la 
						nostra riscossa dell'89-90. Quando, senza saperlo, 
						eravamo diventati forti. I nostri già eccellenti 
						rapporti con IBM, grazie a Charlie si intensificarono e 
						ci portarono alla sperimentazione dell'uso dei codici a 
						barre ben prima che questa tecnologia trovasse 
						applicazione in Italia. L'America era ai primi 
						balbettii; ma noi già nel gennaio del 1977 eravamo con 
						IBM in California e a Chicago. Era importantissimo: non 
						aver più la costrizione di prezzare ogni singolo 
						prodotto nell'atto di rifornimento dello scaffale era di 
						un'importanza paramount. A parte il resto. Nei primi anni '80 installammo 
						con IBM le loro casse con lettore laser in sei negozi, 
						quando il codice a barre nazionale era di là da venire. 
						Ce lo facemmo interno. E applicavamo ai prodotti 
						un'etichetta col codice a barre fatto in casa, anziché 
						l'etichetta col prezzo. Per sperimentare, Poi quando, come si dirà più 
						avanti, la codifica sui prodotti man mano e per merito 
						nostro arrivava - bisognava imperla a fornitori 
						riluttanti - ogni sabato Rino Orenti, per tanti anni 
						capo dell'informatica, veniva da me per darmi i dati 
						della percentuale dei "pezzi" codificati consegnati ai 
						negozi nella settimana! Anche nella progettazione dei 
						magazzini, Fitzmorris fu determinante. Abbiamo appena 
						inaugurato in Piemonte il più grande (dei nostri) mai 
						realizzato, ed è come il primo, del 1972-1973, che da 
						Charles Fitzmorris aveva avuto una piega essenziale. II 
						magazzino automatico cui si accennerà in seguito e 
						coerente e figlio di questi. Charlie fu fondamentale anche 
						nei rapporti internazionali. Conoscemmo persone di 
						rilievo, americane o giapponesi non importa, importante 
						fu aprirsi. Sul piano personale gli 
						debbo molto, anche la mia conoscenza di Chicago, the 
						windy city, metropoli stupenda, di architetture, di 
						archeologie industriali, di pinacoteche stupefacenti. Ci 
						andammo non so quante volte e io ne ho una grande 
						nostalgia: niente è più americano di quella grande, 
						potente città. Per una miglior comprensione 
						degli eventi, va forse aggiunto che in quegli anni 
						(1971-1990) la nostra espansione era arrivata pressoché 
						allo stallo. Per quattro anni di fila non aprimmo un 
						solo negozio. Avere i permessi era durissimo. Iniziò 
						anche l'era delle tangenti, che noi mai pagammo. 
						Dall'altro lato, l'aumento dei costi e delle 
						inefficienze ci spingeva ad investire quel poco cash 
						flow che ci rimaneva in tecnologie, impianti, 
						attrezzature che ci aiutassero a contenere tale aumento. 
						Facevamo tutto ciò senza un piano preordinato, senza una 
						strategia. Anzi, si viveva alla giornata, tutto quello 
						che si poteva fare era cercare di salvarsi. Ma il risultato fu che, al 
						dunque, l'azienda pur piccola e sfiancata, era veramente 
						robusta ed efficiente. Al momento buono rispose, lei si, 
						in modo formidabile. Formidabili quegli anni.             SUICIDIO DI UN 
						BOOM            Agli inizi degli anni '60, 
						sull'onda di un troppo repentino benessere, il clima del 
						Paese cambiò. Iniziò da un lato il grande 
						sperpero, dall'altro ci toccò subire la 
						nazionalizzazione dell'energia elettrica con tutte le 
						sue ricadute7, fino ad arrivare alle 
						"convergenze parallele" e ad altre fumose invenzioni di 
						Aldo Moro. Il "miracolo economico" italiano induceva 
						politici impreparati a ritenere che le risorse fossero 
						inesauribili. I primi pesanti sussulti 
						sindacali, particolarmente nell'industria, iniziarono 
						nel 1960 col cosiddetto "premio di produzione". Nell'industria cotoniera - mi 
						si consenta un flashback sulla Manifattura Caprotti - 
						il "contratto di lavoro" era vigente, ed io vedevo 
						questa richiesta, rivolta ad un limitato numero di 
						aziende (Mazzonis a Torino, Capretti in Brianza, Cantoni 
						nella zona di Busto Arsizio e Cotorossi a Vicenza), come 
						una violazione dei patti sottoscritti. Si vociferava, a Macherio come 
						ad Albiate, di una "occupazione" degli stabilimenti. Il 
						21 settembre 1960 fui ricevuto in Prefettura a Milano, 
						ove il rappresentante del governo in persona, Vicari, mi 
						mise in guardia: dovevo cedere - fu questo il succo del 
						suo discorso - perché il governo proteggeva i "deboli", 
						ed in caso di un'occupazione degli stabilimenti le forze 
						dell'ordine non sarebbero intervenute. Mi disse 
						bonariamente: «Lei i soldi li ha: li dia». Ero avvisato. 
						Potevo solo piegarmi. Feci allora presente a Vicari 
						che sarebbero saliti i costi, e conseguentemente i 
						prezzi. Ma questo lasciò il prefetto nell'assoluta 
						indifferenza. La sua preparazione "economica" era quella 
						del Paese: nulla. Era il 1960 ed era l'inizio 
						dell'inflazione. Ma questo sarebbe stato ancora 
						niente. Nel corso degli anni '60 il clima andò 
						surriscaldandosi e con lo scoppio del '68, prima a 
						Berkeley e poi a Parigi, cominciò una fase di turbolenza 
						che in Italia divenne ben presto permanente. Si entrò 
						nell'era della sommossa continua, coi rituali cortei del 
						sabato in città, col lancio dei cubetti di porfido e dei 
						bulloni. E con le "occupazioni" e gli "espropri 
						proletari". Un venerdì pomeriggio, fine 
						anni '60, nel timore dì un'invasione dei supermercati 
						per il sabato, il nostro grande penalista Antonio Bana 
						mi condusse dal comandante dei Carabinieri della piazza 
						di Milano, in via Moscova. L'ufficiale dell'Arma fu molto 
						gentile ed elegante. Gli esposi il nostro caso e mi 
						assicurò che avremmo avuto un'attenzione discreta. Cioè 
						nei limiti del consentito. Perché, mi disse, «sono 
						duemila in questa città, e li conosciamo tutti. Potremmo 
						mettere ordine in un paio d'ore, ma...». Ministro 
						dell'Interno era il democristiano Paolo Emilio Taviani.   7 
						Ancor oggi, l'energia in Italia è la più cara di tutto 
						il mondo industrializzato.   Sebbene fossero anni di 
						continue agitazioni, il sindacato non aveva ancora quei 
						poteri che lo "Statuto dei lavoratori" gli avrebbe 
						conferito di li a poco. Questa legge entrò in vigore nel 
						maggio del 1970 e cambiò, per cosi dire, il panorama 
						lavorativo del Paese. Ai sindacati fu dato uno 
						straordinario potere di rappresentanza, a cominciare dal 
						diritto di convocare in qualsiasi momento dell'orario di 
						lavoro, cioè - nel nostro caso - di apertura dei negozi, 
						l'"assemblea dei lavoratori" e questo divenne, qui da 
						noi, una delle consuetudini più praticate. II supermercato era aperto, 
						c'erano i clienti, l'assemblea veniva strumentalmente 
						convocata e si teneva nella sala di vendita. 
						Un'incredibile bagarre. La stessa cosa accadeva nei 
						nostri magazzini centrali, col risultato che la merce 
						nei negozi mancava sistematicamente. Al mattino alle 7 
						ci riunivamo sempre, ed lino dei compiti degli 
						"ispettori alle vendite" era di assegnare il numero dei 
						colli da destinarsi a ciascun negozio, poiché il volume 
						totale era contingentato. Ma gli scaffali rimanevano 
						spesso vuoti e così, per renderli meno bui e tristi io 
						ideai il fondo di plastica bianca, esistente ancor oggi 
						senza che nessuno sappia più il perché. Per due anni sospendemmo ogni 
						tipo di pubblicità, poiché nei negozi mancava 
						costantemente la merce. Siccome la contestazione era 
						permanente ed ogni contestatore rappresentava un caso a 
						sé, era più il tempo che il direttore di negozio perdeva 
						a tentare di dirimere faccende di cui sapeva ben poco di 
						quello che passava a dirigere il negozio. Avrebbe dovuto 
						essere un avvocato. E così, per cercare di dargli 
						un sostegno, istituii il "servizio del personale di 
						rete", cioè affiancai ad ogni ispettore - che da noi 
						guida sette o otto negozi - uno Specialista del 
						personale che potesse occuparsi delle problematiche 
						create da questo clima di conflittualità sindacale 
						permanente. Il disordine tuttavia raggiunse 
						livelli parossistici. Il grado di efficienza continuava 
						a scendere, talché alla mattina alle 7 era una litania. 
						La gente lavorava sempre meno e la richiesta di nuove 
						assunzioni divenne costante. Due cassiere qua, un 
						addetto là. Coloro che avrebbero dovuto dirigere, 
						segnatamente il direttore della rete di vendita e gli 
						ispettori, erano come inebetiti, privati di ogni 
						facoltà di operare, di fare il loro lavoro. Così l'azienda, nel suo 
						tentativo di ammansire la belva, iniziò a cedere e 
						concedere. Era cominciata l'epoca dei cosiddetti 
						"contratti integrativi aziendali'', aggiuntisi negli 
						anni 70 al "contratto collettivo nazionale di lavoro". 
						Allo scadere di ogni triennio, il sindacato presentava 
						le sue richieste - la famosa "piattaforma" - e le 
						supportava con opprimenti quanto mutili "agitazioni". 
						Seguivano estenuanti trattative, finché non si 
						arrivava, dopo parecchi mesi e dopo notti e notti di 
						discussioni, al cosiddetto "accordo". Nessuna intesa 
						venne mai siglata prima delle quattro del mattino. Era 
						un rito. Il primo "accordo" fu nel 1971, e non lasciò un 
						gran segno. Il secondo, nel 1974, comportò soltanto un 
						aumento del costo orario del lavoro. Ma fu nel 1978 che, sotto la 
						terribile pressione di scioperi ed "agitazioni", 
						l'azienda si piegò e concesse, unica nella distribuzione 
						italiana, il lavoro a turni. Questo significava che una 
						squadra di lavoratori operava soltanto al mattino ed 
						un'altra soltanto al pomeriggio, come in uno 
						stabilimento industriale. i negozi però erano chiusi 
						per gran parte della presenza dei lavoratori medesimi. 
						In altre parole, gli addetti c'erano, ma il negozio, il 
						nostro impianto, era chiuso, fermo. E le conseguenze 
						economiche non potevano che essere catastrofiche. 
						Devastanti. Infatti la legge sul commercio 
						del 1971, la 426, vietava un'apertura dei negozi 
						superiore alle otto ore giornaliere. Conseguentemente i 
						negozi erano aperti quattro ore al mattino e quattro al 
						pomeriggio (a Milano, per esempio, l'orario era 
						8.30-12.30 e 15.30-19.30). Come se non bastasse, questa 
						divisione del lavoro in 
						due turni comportò anche un aumento del personale 
						occupato. Un esempio rende la cosa di più 
						facile comprensione: se a Milano, in viale Zara, abbiamo 
						80 addetti, dividendoli in due turni, diventano 40 
						addetti per turno; ma con 40 addetti, nelle ore 
						di apertura, non si coprono i servizi del negozio, né le 
						casse, né il rifornimento, né il resto. E così gli 
						organici dovettero essere aumentati del 20%, Tuttavia, in presenza di 
						continue pesanti agitazioni, nel 1985, con un nuovo 
						"contratto integrativo aziendale", fu accordata la 
						riduzione dell'orario di lavoro settimanale da 40 ore a 
						37 e mezzo, a parità di retribuzione, con l'obiettivo 
						già fissato di scendere dopo tre anni a 36. Ma tutto 
						questo non valse a placare chi conduceva il gioco. 
						Anzi. Bisogna considerare che 
						scioperi, agitazioni, picchetti ed assemblee causavano 
						generalmente la chiusura dei negozi con un danno enorme 
						per l'azienda, non tanto per le mancate vendite, quanto 
						per il disavviamento. Alla seconda o alla terza volta il 
						cliente, più spesso la cliente magari anche impaurita, 
						era da considerarsi perduta: non l'avremmo più rivista. Vale la pena di riferire un 
						episodio che esemplifica la situazione cui si era 
						arrivati. Il 7 ottobre 1976 venne indetta 
						un'assemblea - magazzini ed uffici - nella sede centrale 
						di Limito. Non tutto il personale degli uffici aderì ed 
						allora una dozzina di mascambrones, come poi li 
						avrebbe chiamati per anni il direttore del personale, 
						dottor Roberto Delzotto, irruppe nei vari uffici 
						pretendendo che tutti lasciassero il proprio posto di 
						lavoro per andare in assemblea. Quest'irruzione arrivò 
						fino alla segreteria di direzione e al mio stesso 
						ufficio. Le segretarie venivano pesantemente insultate. Il gruppo di mascambrones
						era capeggiato da un certo Bulgari, un facchino che 
						lavorava nel magazzino dei formaggi, il quale urlava 
						come un ossesso: «Libertà è aderire alla maggioranza». 
						Questo è ciò che era stato instillato nel suo cervello. 
						Però la cosa mi fece orrore perche io ricordavo quel 
						pazzo che dal balcone di piazza Venezia urlava: «Chi 
						non è con noi è contro di noi». Soltanto l'intervento di 
						Ferdinando Schiavoni, del quale più avanti dirò, mi 
						salvò dallo scontro fisico. Costoro se ne andarono ma 
						non tutto il personale degli uffici uscì e così vennero 
						dichiarati due giorni di sciopero dell'intero centro e 
						tutti i negozi rimasero per più giorni senza mercé. In Toscana, la situazione 
						arrivò ad essere anche più tesa. Basti qui ricordare 
						l'episodio avvenuto nel negozio dell'Argingrosso, nel 
						dicembre del 1976, quando un gruppo di sindacalisti 
						prese a gettare a terra tutti Ì prodotti che stavano 
						sugli scaffali. Nel parapiglia, in sette circondarono il 
						direttore, Gianfranco Vannini, il quale, spintonato ed 
						insultato, cadde a terra colto da un ictus. Non morì, ma 
						fu rovinato per la vita. E si arrivò all'episodio dei 
						"chiodi", anni '80. I "chiodi" in realtà erano composti 
						da due triangoli di ferro dalle punte acuminate, 
						incrociati fra loro e saldati in modo tale che avessero 
						sempre una punta rivolta verso l'alto (allegato 1).
						Erano autentiche armi da guerriglia urbana, 
						Venivano gettati davanti all'uscita del magazzino 
						centrale di Firenze per squarciare le gomme dei nostri 
						camion. Un autista che era riuscito a passare 
						ugualmente fu inseguito e sorpassato sull'autostrada Firenze-mare. Dall'abitacolo dell'auto che lo aveva 
						superato, furono lanciati questi "chiodi", che 
						provocarono lo scoppio di una gomma. L'autotreno sbandò 
						paurosamente, finendo contro il guard-rail: il 
						guidatore si salvò per miracolo. In questo quadro di estrema 
						sofferenza, l'azienda stava ormai spegnendosi. I 
						risultati di bilancio tendevano allo zero, la situazione 
						si faceva pericolosa in quanto agli "amministratori" non 
						era consentito di amministrare, ma tutti gli oneri e le 
						responsabilità stavano in capo a loro, a me. Venne il 1988. Ed i sindacati 
						ci presentarono una nuova assurda "piattaforma", con la 
						richiesta di scendere a 36 ore di lavoro e di ulteriori 
						aumenti salariali. Il nostro costo del lavoro, per tutto 
						quanto sopra descritto, era già del 25% superiore a 
						quello dei concorrenti. Nel 1987 il vecchio direttore 
						del personale s'era dimesso ed il suo posto era stato 
						coperto dal gagliardo dottor Delzotto. Nella 
						circostanza, gli dissi: «Piattaforma un cazzo. 
						Presentiamo noi la nostra "piattaforma", rimettiamo 
						tutto a zero». Demmo battaglia ed il signor Paolo De Gennis, oggi vicepresidente, mi ricorda che io dissi a 
						Delzotto: «Sarà un bagno di sangue». Nell'ottobre dì 
						quello stesso 1988 annunciammo 904 "esuberi", cioè 
						decidemmo - conti alla mano - che 904 persone (su 5.684) 
						erano di troppo. Si scatenò una lotta senza quartiere. Nel marzo 1989 pubblicammo un 
						annuncio a doppia pagina sui maggiori quotidiani, 
						denunciando alla pubblica opinione gli incredibili 
						episodi coi quali pretestuosamente le maestranze 
						venivano tenute in uno stato di perenne "agitazione". 
						Questo produsse un grande consenso tra i nostri clienti. Già all'inizio della "vertenza" 
						avevamo deciso che non ci saremmo più piegati agli 
						scioperi. I nostri negozi sarebbero stati sempre 
						aperti. Ci saremmo opposti in ogni modo al 
						picchettaggio. E subito, con nostra sorpresa, dovemmo 
						constatare che buona parte del personale, 
						particolarmente in Lombardia, "entrava", cioè entrava a 
						lavorare, superando insulti e picchetti. Nell'affrontare finalmente lo 
						scontro, per duro che potesse essere, non avevamo messo 
						in conto quattro cose. Primo: tutti i "capi" e buona 
						parte del personale erano esasperati e stufi di essere 
						sbeffeggiati. Secondo: nel 1988 era entrato 
						in funzione a Limito un magazzino automatico, allora 
						unico in Europa nel nostro settore, che si rivelò 
						un'arma decisiva. Terzo: avevamo finito di 
						installare in tutti i negozi le casse coi lettori di 
						codici a barre, non occorreva più digitare i prezzi e 
						chiunque poteva stare alla cassa. Quarto: coi prodotti ormai 
						codificati, il rifornimento in negozio diventava 
						spedito. Invece, prima, ogni singolo pezzo (milioni di 
						pezzi) doveva essere prezzato manualmente per essere 
						posto in vendita. I nostri negozi rimasero sempre 
						aperti, i sindacalisti non riuscirono più a impedircene 
						l'apertura. Fummo trascinati in tribunale con decine di 
						cause per "comportamento antisindacale", un reato di 
						invenzione italiana. Ebbero poco successo. Fu una lotta disperata, una 
						lotta per la vita, che durò oltre tre anni. L'organico fu gradualmente 
						ridotto di 1.064 persone, cioè il 20% della forza 
						lavoro. Con gli "accordi" del dicembre 
						1991 a Milano e del gennaio 1992 a Firenze, siglammo la 
						resa, ma questa volta eravamo dall'altra parte del 
						tavolo, con: A)  il congelamento 
						dell'orario di lavoro a 37 ore e mezzo e l'annullamento 
						dell'ulteriore riduzione prevista; B)  l'aumento della 
						flessibilità degli orari di lavoro; C)  l'ampliamento del 
						turno notturno nei magazzini centrali; D)  l'azzeramento del 
						contenzioso legale. Riprendemmo cosi il controllo della 
						rete di vendita e dei depositi. Avevamo salvato 
						l'azienda. Tutti i nostri sindacalisti 
						interni se ne andarono. Alcuni fecero una brillante 
						carriera nel sindacato, uno è addirittura "nazionale". 
						Nessuno per ora è diventato ministro. Tempo al tempo. Alla fine del tormentone, andai 
						a Firenze. Come d'abitudine visitai diversi negozi. Fui 
						accolto calorosamente da molta gente. Mi sentii dire 
						grazie. Erano contenti: avevano riacquistato la libertà 
						dì lavorare. Vorrei chiudere questa fosca, 
						lunga carrellata su oltre vent'anni di tormento, con un 
						riconoscimento. Un signore importante, il dottor 
						Ferdinando Schiavoni, che per tantissimi anni, dal 1957 
						al 1990, fu con me al vertice dell'azienda, aveva del 
						nostro caso un'opinione "diversa". Schiavoni era una 
						persona molto particolare. Grande cacciatore d'Africa - 
						dell'Africa, oltre che degli inglesi, era innamorato - 
						del cacciatore aveva il fiuto, l'istinto. Ed un coraggio 
						leggendario. In quegli anni in cui la 
						pressione, l'aggressione dei sindacati si fece 
						insopportabile, segnatamente in Toscana, lui mi disse 
						non so quante volte: «È la Coop!». Ed io lo zittivo, 
						talvolta anche con sufficienza, era una cosa che mi 
						rifiutavo addirittura di immaginare. Devo attribuire a Schiavoni 
						molti meriti. Ad esempio: nel 1977 Francesco Colucci, 
						presidente dell'Unione Commercianti di Milano e poi 
						presidente di Confcommercio, si era appropriato del 
						progetto del codice a barre in Italia e lo teneva 
						volutamente fermo. Ai commercianti, agli ambulanti non 
						solo non interessava, anzi la sua attuazione avrebbe 
						dato vantaggi competitivi alla "grande distribuzione". 
						Schiavoni, essendo vicepresidente di Confcommercio, 
						trasse il progetto dalla scrivania di Colucci e 
						contribuì a fondare ed a promuovere attivamente 
						l'INDICOD, l'Istituto Nazionale per la Diffusione della 
						Codifica dei Prodotti, che assegna il codice ad ogni 
						prodotto italiano. Nei primi anni '80, Schiavoni 
						aveva lavorato assiduamente col compianto ministro 
						Giovanni Marcora per liberalizzare gli orari dì apertura 
						degli esercizi commerciali. La legge, che costringeva 
						l'attività alle 8 ore giornaliere ed alle 44 ore 
						settimanali massime di apertura, venne diversamente 
						interpretata e se da anni siamo aperti dalle 8 del 
						mattino alle 9 di sera, lo si deve a Marcora ed a 
						Schiavoni. Schiavoni ci salvò da un sicuro disastro e, 
						più ancora che noi, salvò gli ipermercati. Forse gli dobbiamo anche il 
						credito del suo pensiero "anti sindacale" di allora. 
						Oggi, mettendo insieme un po' tutto, vecchio e recente, 
						diventa difficile non dargli ragione. Infatti, alla 
						luce di quanto sperimentato - o, meglio, subito - in 
						questi ultimissimi anni, guardando a fatti lontani come 
						in un cannocchiale rovesciato, le cose si compattano, ed 
						assumono un significato preciso. Carlo Olmini, uomo di Legacoop 
						in Lombardia, insisteva, come sì vedrà fra poche 
						pagine, affinché Esselunga facesse pubblicità sull'Unità. Turiddo Campami, da sempre 
						presidente di Unicoop Firenze, dichiara ora che, per 
						causa nostra, proprio in quegli anni '60 e '70 passava 
						notti insonni. Guardando un po' più da vicino 
						i curricula di costoro, si constata come tutti - ma 
						proprio tutti - passino sistematicamente da una 
						"parrocchia" all'altra della stessa "chiesa". Partito, 
						sindacato, Coop, amministrazioni locali, Parlamento... 
						Una aggregazione ad alto potenziale. La CGIL, il sindacato 
						comunista, durissima, sempre, con noi. Le incredibili telefonate del 
						2005 sull'affare Unipol: Pierluigi chiama Pierluigi, 
						Piero chiama Gianni, Massimo chiama tutti. Nel 2005, Unipol, attraverso un 
						prestigioso studio legale, si fa avanti per acquistare 
						Esselunga... Aldo Soldi, presidente di tutte 
						le Cooperative di consumo, ci assedia, come da 
						incontrovertibile documentazione. Ed ora, proprio ora, mentre 
						scriviamo, è in corso una "agitazione", come si vedrà 
						nell'ultimo episodio narrato più avanti. A questo punto, una cosa credo 
						che si possa pacificamente affermare: sono tante le 
						parrocchie, ma una sola è la chiesa. E una sola è la 
						cassa. Cassa e martello.   8
						Con l'autorizzazione del Conte Giannino Marzotto, 
						trascrivo qui di seguito la sua relazione sugli 
						accadimenti di Valdagno del 1968. Il testo è parte del 
						suo libro Così è o mi parve (Fucina editore, pag. 101 e 
						seguenti). Il capitolo s'intitola "Sciopero".   19 aprile 1968: due giorni dopo 
						che mio padre mi aveva nominato presidente e 
						consigliere delegato della Marzotto iniziarono a 
						Valdagno quelle azioni di guerriglia che trascinarono 
						guai ben più grandi. E vero che una azione sindacale 
						lascia uno stato di tensione, ma mai aveva raggiunto il 
						grado di teppismo che tutte le forze politiche, 
						amministrative e sindacali riconobbero. La televisione diede ambio 
						rilievo agli episodi e mio padre, che era anche 
						indisposto, ne soffrì terribilmente e purtroppo questi 
						proseguirono sulla spirale della violenza. Erano allora 
						di moda i vietcong e lo sciopero veniva sostituito con 
						l'occupazione della fabbrica. I cosiddetti katanghesi, 
						armati di sbarre, presidiavano le fabbriche e imponevano 
						il comportamento più esagitato. Le azioni degli 
						estremisti portarono a rovesciare - di notte - monumenti 
						Onorati da lutti. Si cercò ogni possibile dialogo con i 
						sindacati» che però apparivano distratti rispetto al 
						problema locale, da ideologie di altra natura. Queste 
						mie note aiuteranno a comprendere il clima di quei 
						giorni: in realtà mi convinsi, o cosi mi parve, che i 
						lavoratori locali si aspettassero qualche ragionevole 
						risultato, non la luna del pozzo! Si sa: l'impresa che 
						guadagna continua, se perde chiude. Essi erano tuttavia guidati dai 
						sindacati locali i quali erano in una sorta di conflitto 
						con i sindacati nazionali per via di riparti di quote 
						associative. Il Centro, diretto da Lama e Storti, aveva 
						conquistalo, non dico il potere, ma almeno la 
						televisione: non poco. E in realtà, puntavano più in 
						alto. La milizia sindacale locale 
						aveva non pochi problemi: obbedienti perin de ac 
						cadaver o adesione agli interessi locali e immediati 
						degli operai? Per la CISL il problema era di non farsi 
						scavalcare a sinistra, per la CCIL conseguire una 
						vittoria strategica che superava i vantaggi locali. In 
						conclusione avemmo riunioni plenarie con rutti i 
						sindacalisti e le commissioni interne di tutte le 
						fabbriche: oltre cento persone! Il clima era disteso finché 
						l'esponente della CGIL disse: «Lei presidente non 
						proponga nulla, perché noi conquisteremo tutto con la 
						lotta» Di fatto fu così. Continui cortei, saracinesche 
						abbassate per solidarietà, così dicevano i giornali 
						mentre i negozianti temevano per le vetrine» 
						volantinaggio e intimidazioni, i sindacati assunsero i 
						poteri, ma visto che non erano pronti a esercitarli, li 
						persero in pochi anni. L'economia nazionale affrontò una 
						politica di indebitamento pubblico sbalorditivo 
						inseguendo più le chimere che la realtà. Ma osserviamo fugacemente la 
						cronaca nei dettagli. Furono convocate assemblee dei 
						lavoratori che erano dominate dalla violenze che non 
						lasciavano certamente spazio alla discussione. Le 
						fabbriche erano permanentemente occupate, la polizia 
						prudentemente assente, ma surrogata, almeno alla 
						domenica, da S.E. il Vescovo che celebrava messa sugli 
						spalti coperti di stendardi rossi. Credo che Pirelli e 
						Marzotto fossero gli obiettivi principali dei sindacati 
						perché considerati le bandiere del capitalismo 
						illuminato e umano: queste istituzioni si volevano 
						demolire o umiliare. Infine la situazione precipitò. 
						Iniziò l'occupazione permanente delle fabbriche di 
						Valdagno e dintorni che durò circa ottanta giorni. 
						Questo, per motivi logistici, si concluse con l'arresto 
						di tutti gli impianti della Marzotto: perdere parecchie 
						centinaia di ore di lavoro individuale per poche decine 
						di lire all'ora - così si concluse - appare assurdo a 
						chi non fa politica. Vi fu perciò una serie 
						interminabile di incontri con persone tanto volonterose 
						quanto ininfluenti e il gran desiderio era - in certi 
						ambienti - che l'impresa di Stato, allora la Lanerossi 
						in perdita catastrofica, si surrogasse al paternalismo 
						efficiente dei Marzotto. Naturalmente c'erano i ribelli 
						della maggioranza silenziosa. Ricordo qualche incontro 
						in cui la domanda, assai discreta, che mi ponevano era: 
						«Ma tu che comandi, cosa ci comandi?». La mia risposta, 
						altrettanto discreta, era: «Sono qui per organizzare una 
						impresa e non la controrivoluzione». Ebbene, e per concludere 
						sorridendo, fu la prima e ultima volta nella mia vita 
						che mi fu assegnata una scorta armata. Avevo allora una 
						FIAT 1100 TV leggermente truccata e, quando partivo 
						dallo stabilimento, con quattro sgommate disperdevo le 
						scorte piuttosto innervosite. Facevo per tornare a casa 
						delle strade interne e mi fermavo anche talvolta nei bar 
						dei paesini a chiacchierare. Non ebbi mai paura anche 
						perché penso che se uno ha un ruolo deve affrontare con 
						serenità i rischi che questo comporta. Succede. Alla fine intervennero tutti i 
						sindaci della vallate e, con una riunione notturna, si 
						pose termine allo scempio commesso. Nulla era stato 
						conquistato, ma si era affermato il principio che una 
						dura lotta porta vantaggi di potere. La stampa nazionale 
						esaltò la vittoria dei sindacati che, in realtà, non 
						avevano acquisito nulla.            PRIME AVVISAGLIE         II mio primo contatto con Coop 
						ebbe luogo nel 1966. Avevo assunto da pochi mesi la 
						carica dì amministratore delegato di Supermarkets 
						Italiani Spa, quando una conoscenza dimenticata, Carlo 
						Olmini, mi telefonò. Era di Carate Brianza e ci eravamo 
						conosciuti molto bene da ragazzi, soprattutto sul 
						tramway col quale da Carate e da Albiate, durante la 
						guerra, andavamo a Monza e da lì a Milano, Porta 
						Venezia. Era diventato un esponente del Partito 
						Comunista Italiano ed altissimo dirigente di Legacoop. 
						Io, a mia volta, ero diventato un concorrente di Coop 
						Lombardia e lui mi telefonava, chiaramente, per conto di 
						quella parrocchia. Era un comunista molto 
						avanzato, quasi come quelli di oggi. Aveva sposato una 
						tedesca. Portava spesso dei maglioncini o dei girocolli 
						bianchi sotto un blazer blu. Era già allora un comunista 
						chic. Ci incontrammo parecchie volte. Era simpatico. Un 
						comunista di eccezione, che ti guardava dritto negli 
						occhi. Dopo forse un paio d'anni di 
						incontri amichevoli, un giorno a Limito mi disse che 
						dovevamo fare la pubblicità sull'Unità. L'organo 
						del Partito Comunista Italiano tirava 150.000 copie ed 
						era letto da molti dei nostri clienti, sosteneva. E poi 
						tutti i concorrenti - Rinascente, SMA, Standa, eccetera 
						- la facevano. Gli risposi che noi non l'avremmo mai 
						fatta. E cosi dopo un po' di insistenze - c'era fra di 
						noi quella confidenza di quando ci sì conosce da ragazzi 
						- un bel giorno mi disse: «Bernardo, tu la pubblicità 
						sull'Unità non la fai, però, per favore, li 
						ricevi e glielo dici, cosi la smettono di rompermi le 
						palle». Diedi loro un appuntamento qui 
						a Limito per -ricordo molto bene - un mercoledì. 
						Ma poi, proprio nel mercoledì prefissato, fu dichiarato 
						uno di quei begli scioperi generali che tanto hanno 
						contribuito al progresso del Paese. Lasciai le cose come 
						stavano. E siccome in quelle circostanze non era neppure 
						consentito entrare in sede, feci una cosa inusuale, 
						diversa: andai a caccia con mio fratello Guido a San 
						Bernardino, nella riserva dei Marelli. Che cosa ne sarà stato di 
						quelli dell'Unità? Probabilmente vennero e 
						trovarono i picchetti, i fischietti, i fuochi, e tante 
						belle bandiere rosse. E forse pensarono che non era più 
						il caso. Io non ne seppi più niente perché Olmini aveva 
						appena lasciato per andare alla Camera quale deputato 
						del Partito Comunista Italiano, membro per diversi anni 
						della commissione industria e commercio (ed è in 
						commissione che si fanno le leggi, non in aula!). Come esponente di Coop era un 
						esperto e certamente contribuì alla stesura della legge 
						426 del 1971, che fu chiamata "riforma del commercio". 
						Furono inventati i "nulla osta regionali", per ottenere 
						i quali occorreva passare al vaglio di commissioni in 
						cui sedevano di diritto ben tre rappresentanti 
						sindacali. Un ulteriore ostacolo al nostro sviluppo. Ebbimo poi con Coop diversi 
						episodi premonitori di spiacevolezze a venire. Non ho le 
						prove, ed i testimoni sono scomparsi. Ma almeno uno si 
						può tranquillamente raccontare. A metà degli anni '70 avevamo 
						acquistato nel centro di Pavia, alla Minerva, 
						l'importante proprietà ex Necchi e Campiglio. Per anni 
						non riuscimmo a porci mano. Finché il sindaco di Pavia, 
						un bel giorno, disse al nostro vicepresidente Schiavoni 
						che noi lì non avremmo mai potuto fare niente. 
						L'"operazione" andava ceduta a CCPL di Reggio Emilia. 
						Non sapevamo neppure che cosa fosse, la CCPL. Così 
						telefonai ad Achille Maramotti, l'imprenditore della Max 
						Mara, a Reggio, il quale mi spiegò che si trattava di 
						una cooperativa comunista; che era gente "a posto", ma 
						che lavorando con loro avrei lavorato per il "Partito". 
						Ci pensammo qualche giorno. Che cosa potevamo fare? 
						Avevamo pagato la proprietà a caro prezzo. A Pavia, alla 
						Minerva, è CCPL che ha realizzato il tutto e debbo 
						testimoniare che CCPL con noi si è poi comportata 
						correttamente.   Italianieuropei?   Quanto ho tentato sin qui di 
						riferire attiene a tempi lontani e ad un generico 
						malessere che però non sembrava minare le fondamenta 
						della libertà. Le forze in giuoco nel Paese erano 
						plurime e, fra queste, diverse costituite da 
						"democratici", fossero essi democratici cristiani, 
						socialdemocratici, o liberali e repubblicani che di 
						definirsi democratici non sentivano la necessità. Lo 
						erano. A costoro si contrapponevano i 
						comunisti. Oggi, in questo momento, il 
						potere è andato concentrandosi in un qualcosa che di 
						democratico non ha proprio il sapore. Anzi, per certi 
						versi, si rivela come un boa constrictor, che poi 
						soggioga gran parte della pubblica opinione, inclusi 
						onesti maìtres-à-penser. Chi da questo boa constrictor 
						non sia appunto "costretto", proprio costretto nei 
						fatti, non riesce ad avvertire ti pericolo. L'assedio, l'assalto di cui io 
						sono stato oggetto in questi anni recenti, mi induce a 
						testimoniare. Ecco il perché di questa mia denuncia. Io 
						la vivo come un dovere civile e come una manifestazione 
						di libertà. Questo è il mio atto d'accusa, 
						la denuncia di fatti italiani che in una Italia 
						"europea" sono - secondo me - inammissibili. "Italianieuropei"9?   9 
						La fondazione, presieduta da Massimo D'Alema, 
						è nata nel 1998 con l'intenzione di costituire un punto 
						di riferimento autorevole all'interno della sinistra ma 
						anche di contribuire "alla selezione delle nuove classi 
						dirigenti nel campo della politica, dell'impresa, 
						dell'amministrazione pubblica e della cultura". Lo fa 
						organizzando incontri tematici e finanziando studi e 
						ricerche, poi diffuse attraverso proprie pubblicazioni. 
						E', insomma, centro e strumento di cultura politica. Nel comitato scientifico, 
						presieduto da Giuliano Amato, figura tuttora Giorgio 
						Napolitano. La dirige Pier Carlo Padoan, uno degli 
						economisti che D'Alema portò con sé a Palazzo Chigi nel 
						1998, quando fu nominato presidente del Consiglio. Nel Consiglio 
						d'amministrazione della fondazione siede Ivano Barberini, 
						figura storica della cooperazione per essere stato (dal 
						1979) presidente di ANCC, Associazione Nazionale 
						Cooperative di Consumatori, poi presidente di Legacoop 
						(dal 1996 al 2002). Né potrebbe essere diversamente, dal 
						momento che Legacoop è fra i "soci benemeriti" che 
						finanziano la fondazione, insieme con imprenditori quali 
						Carlo De Benedetti,Guidalberto Guidi, Francesco Micheli 
						e Vittorio Merloni.               IL MIO ATTO 
						D'ACCUSA       1. MARIO ZUCCHELLI 
						E COOP ESTENSE     A Modena comanda Mario 
						Zucchelli. E non solo a Modena. A Modena c'è un'asta? 
						Un'asta per uno scampolo di terreno possedendo il quale 
						si blocca tutto un pezzo di città? Interviene Zucchelli. 
						In persona. E se si tratta di stoppare nella provincia 
						di Modena un progetto altrui, chi scrive al sindaco di 
						Vignola? Sempre Zucchelli. Zucchelli tiene Modena al 
						guinzaglio, come un cagnolino. Zucchelli è attivissimo. Ma chi 
						è Zucchelli Mario? Nasce a Castelfranco Emilia (Modena) 
						nel 1946. Frequenta le scuole medie nel convitto dei 
						Salesiani a Bologna. Diplomatosi poi perito 
						elettrotecnico, si laurea in economia e commercio. A 28 
						anni, nel 1974, entra come impiegato amministrativo 
						nella Alleanza Cooperativa Modenese, della quale nel 
						1985 diventa presidente. Poi, alla fusione di Coop 
						Modena (nuovo nome) e Coop Ferrara, nel 1989 diventa 
						presidente di Coop Estense, la terza cooperativa di 
						supermercati in Italia. Negli anni '90, Zucchelli porta 
						Coop Estense in Puglia. Dal primo ipermercato a Taranto 
						(1992), la proietta ad una grande espansione. 
						Nell'estate 2006, appena varata la legge Bersani per la 
						cosiddetta liberalizzazione della vendita dei farmaci, 
						nel giro di una settimana apre tre farmacie negli 
						ipermercati di Carpi, Bari e Ferrara. Fulmineo. Zucchelli è presidente di Holmo, 
						la holding finanziaria delle Coop, e di Finsoe. Queste 
						due società rappresentano il vertice del sistema 
						economico cooperativo e controllano Unipol 
						Assicurazioni, in cui Zucchelli è consigliere 
						d'amministrazione. È anche consigliere di Pharmacoop, la 
						società di farmacie di Coop. Ricopre poi molte altre 
						cariche e presidenze nella galassia delle società Coop. Cercheremo ora di vedere 
						Zucchelli più da vicino, sul suo territorio, ed 
						impareremo così come si fa il business. Come imprenditori, noi abbiamo 
						cercato ispirazione in qualche grande che ci ha 
						preceduto, che so, Thomas Watson, fondatore di IBM ed 
						inventore dell'informatica, o Ferrero, quello della 
						Nutella. Ragazzi! La vera scuola di business sta a 
						Modena. Modena Business School.   Modena, La 
						Bruciala ovvero Grand'Emilia   Esiste a Modena, tra la città e 
						l'uscita dell'autostrada di Modena Nord, un enorme 
						centro commerciale, fiore all'occhiello della 
						distribuzione democratica. Infatti è stato battezzato 
						Grand'Emilia, benché venga più comunemente - e 
						propriamente - detto La Bruciata. Come si realizza una cosa così? 
						Beh, intanto si prende in esame l'ubicazione, la 
						location, come dicono adesso: Modena Nord, la Via 
						Emilia, una viabilità progettata apposta per "servire", 
						per rendere ben accessibile il nuovo grande punto di 
						vendita. E l'immobiliare? L'immobiliare, 
						quello che oggi chiamano real estate? Più bello 
						di così... Ci sono due proprietà contigue enormi: enormi 
						perché 78.000 metri quadrati di proprietà del Comune più 
						192.000 appartenenti ad un solo privato fanno 270.000 
						metri quadrati, una cosa proprio adatta a chi pianifica 
						in grande. E gli emiliani di Modena in grande pensano. Ciò premesso, vediamo come si 
						può procedere. Il primo passo è la delibera del 
						Consiglio comunale del 2 dicembre 1985, con la quale 
						viene approvato il Piano del commercio della città di 
						Modena. Prevede tre centri commerciali sul territorio, 
						due poi destinati a Coop ed uno a Conad (associazione di 
						commercianti "democratici", anch'essa Legacoop). Uno di 
						essi, uno di quelli di Coop, andrà proprio alla 
						Bruciata, ove il Comune già è proprietario di un bel 
						terreno, come si è visto, ma assolutamente insufficiente 
						al compimento dei grandioso progetto. Ecco perché, a rogito notaio 
						Enrico Osti di Castelfranco Emilia, il 9 marzo 1987 una 
						società di Ferrara a nome Secu, emanazione di Coop 
						Estense, acquista dalla signora Liliana Segre per un 
						miliardo e 100 milioni di lire (568.000 euro) il terreno 
						di 192.000 metri adiacente a quello del Comune, 
						anch'esso affacciato sulla Via Emilia. Amministratore 
						unico di Secu, all'epoca, era Giuseppe Bolognesi, che 
						oggi, solo per citare alcune cariche tra le svariate che 
						ricopre, è sindaco effettivo di Coop Italia e di 
						Pharmacoop. Inoltre, fino al 18 agosto 1998, è stato 
						procuratore speciale di Coop Estense. Il 9 novembre 1989 il Consiglio 
						comunale di Modena approva la variante generale al Piano 
						regolatore ed il terreno agricolo (dunque non 
						edificabile) venduto dalla signora Segre diventa 
						edificabile commerciale e parcheggio. Su di esso saranno 
						costruiti 15.000 metri quadri (il 32%) della totalità di 
						Grand'Emilia (allegato 2). Quello stesso giorno, quello 
						stesso Consiglio comunale approva il bando per 
						l'assegnazione dell'area di 78.000 metri quadrati di 
						proprietà del Comune, contiguo all'ex terreno Segre, 
						per la realizzazione di un centro commerciale. Il tempo della gara, il tempo 
						cioè che viene concesso ai concorrenti per predisporre e 
						presentare un simile progetto, è di 40 giorni. Inoltre, 
						nel punteggio del bando, 40 punti su 100 saranno 
						conteggiati a favore di chi si dichiarerà disponibile a 
						chiudere esercizi commerciali esistenti in città. Due soli contendenti presentano 
						i loro progetti nel termine dei 40 giorni: Coop Estense 
						ed una società con sede a Varedo (Milano), in realtà 
						Euromercato (oggi Carrefour). Ma chi può impegnarsi a 
						chiudere altre superfici commerciali già operanti a 
						Modena? Coop Estense. Che infatti si impegna, nella 
						convenzione col Comune, a chiudere tre punti vendita 
						nella città per complessivi 5.000 metri quadrati: Coop di via Giardini Coop di via Calaverna Conad del quartiere Madonnina. In seguito tutti e tre 
						riaperti, due Coop ed un Conad (sempre della Legacoop, 
						per intenderci). Il 20 marzo 1990 il Consiglio 
						comunale individua perciò Coop Estense come operatore 
						cui assegnare l'area di proprietà comunale ove 
						realizzare un centro commerciale di 28.000 metri 
						quadrati di vendita (pari a 28 esselunghe di viale 
						Piave, Milano), con l'obbligo per l'assegnatario di 
						dotare il centro commerciale di ampi spazi per il 
						parcheggio da recuperare nell'ambito della complessiva 
						riorganizzazione del comparto della Bruciata (qui 
						chiamato Cittanova, ma è la stessa cosa), cioè sull'area 
						che la Secu aveva acquistato dalla signora Segre. Intanto, il 17 novembre 
						dell'ormai trascorso 1989, il Consiglio 
						d'amministrazione di Coop Estense aveva dato mandato al 
						presidente Zucchelli di partecipare alla gara 
						ottemperando a tutti gli adempimenti relativi. Ormai i giochi sono fatti, 
						conviene forse lasciar passare un po' di acqua sotto i 
						ponti e sarà soltanto il 23 dicembre 1992 (a Natale 
						tutto tace!) che il Comune di Modena venderà a Coop 
						Estense per 10 miliardi di lire (5 milioni di euro) il 
						suo terreno di 78.000 metri sui quali verranno edificati 
						31.000 metri dei 46.000 di superficie totale del centro 
						commerciale (il 68%). Di questi, 28.000 metri, pari alle 
						28 esselunghe predette, saranno area di vendita. Infine, dopo un mese, il 25 
						gennaio 1993, Secu vende a Coop Estense il terreno di 
						192.000 metri quadrati, acquistato per quattro lire 
						dalla signora Liliana Segre. Non è rilevante il fatto 
						che, anni dopo, Secu venga fusa in una società, la 
						Tiziano Srl, se non per il fatto che Zucchelli di 
						quest'ultima è amministratore. A questo punto, tutta 
						l'orchestrazione, tutto il concerto mi sono sembrati 
						chiari, salvo il prezzo del terreno ceduto dal Comune ai 
						cooperatori, che mi è sembrato esiguo. Pur con la 
						copertura di un valutatore americano, 5 milioni di euro 
						per un terreno di otto ettari con tutta quella 
						edificabilità commerciale10" sono una cosa 
						mai vista. Sapeva il valutatore americano che il terreno 
						era "commerciale"? O pensava di trovarsi nelle praterie 
						del Midwest, coi bisonti? Ma, mi sono detto, 
						affari loro. Se i cittadini di Modena sono contenti... La mia curiosità si è invece 
						indirizzata alla signora Liliana Segre ed alle sue 
						vicende, Intanto, il cognome: quale storia poteva 
						celare? E poi: come sono riusciti costoro a pagare 
						appena un miliardo di lire il terreno di 192.000 metri 
						quadrati di questa signora, una vera e propria tenuta 
						inclusa nel perimetro cittadino, quando pagano 10 
						miliardi di lire l'adiacente terreno di 78.000 metri 
						quadrati di proprietà del Comune? L'atto, come detto, è del 9 
						marzo 1987. La venditrice è residente a Milano in zona 
						Magenta. Zona "bene". Il terreno le era pervenuto per 
						donazione all'età di 12 anni, nel giugno del 1942, 
						quando si entrava nel pieno dell'immane tragedia delle 
						deportazioni e della Shoah. Mi sono cosi trovato nel bel 
						mezzo di una spaventosa vicenda - le famigerate leggi 
						razziali, Auschwitz, lo sterminio - di cui la signora 
						Segre è autorevole e speciale, specialissima testimone. Attraverso la comunità ebraica 
						l'ho avvicinata. E nel tardo pomeriggio del 22 maggio 
						2007 sono stato emozionato ospite nella sua bella casa 
						di Milano. Ho incontrato una Signora. Una Signora 
						straordinariamente viva ed intelligente, che mi ha 
						raccontato la sua storia. Che però io non ho il diritto 
						qui di riferire. Né posso dire come e perché lei si sia 
						disfatta di una proprietà donatale dal nonno 
						nell'imminenza d'essere anche lui tradotto ad Auschwitz 
						e di morirvi. Una cosa sola credo di poter dire: che ho 
						incontrato in un ambiente "di una volta" una signora "di 
						una volta". E che i nostri padri erano entrambi "ragazzi 
						del '99", che entrambi erano 
						andati in guerra nel 1917, e che, nel cotone entrambi, 
						si erano certamente conosciuti. Il resto, sono cose 
						nostre. Ricordi indicibili, struggenti, vorrei dire 
						bellissimi nel loro orrore. Tornando invece alle prodezze 
						dei nostri personaggi, siamo in grado di statuire, in 
						sintesi, come, con poche lire e sorprendente 
						disinvoltura, si "crea" la Bruciata: si fa un piano, si 
						indice un bando congegnato in modo tale che nessuno 
						possa parteciparvi, ci si impossessa di un'area, 
						pubblica e privata, di grandissimo valore. Et voilà,
						a Modena si consolida il monopolio della pappa. 
						Democraticamente. Unlimited unfairness. Il caso non ci riguarda 
						direttamente, ci riguarda solo come cittadini. Ma ci è 
						sembrato una bella introduzione al racconto di quanto 
						subiremo per mano di Zucchellì, che, bontà vostra, ci 
						accingiamo a riferire.    10 
						Va saputo che il commerciale, raro, è generalmente di 
						alto valore, non è come il produttivo o il residenziale. 
						 Modena, via 
						Canaletto   Dalla costruzione di due punti 
						di vendita negli anni '90, uno a Bologna San Vitale, 
						l'altro a Modena via Murane (uno sgorbio di negozio), 
						nacque il nostro sodalizio con il signor Pierluigi 
						Montanari, dell'impresa Edilmontanari di Modena. Era, 
						anzi è, questo signore un simpaticone, benché 
						nostalgico di certi tempi andati. Troppo, secondo me. 
						Anche se la sua reazione - ora lo possiamo ben dire - è 
						stata determinata dall'incredibile ambiente in cui opera 
						e vive. Comunque, quando alla fine degli anni '90 si 
						presentò l'opportunità di realizzare un supermercato a 
						Modena, in via Canaletto, agimmo congiuntamente.  Si trattava di un'area molto 
						ampia, 60.000 metri quadrati in totale (allegato 3},
						sulla quale realizzare molta edilizia residenziale, 
						un albergo ed un supermercato. Acquistammo, tramite 
						Edilmontanari, il 72% della superficie complessiva per 
						la somma di 24 miliardi di lire. Era il 2 marzo 2000. Il 
						Comune di Modena era già proprietario del 10% del totale 
						dell'area ed aveva interesse a portare avanti il Piano 
						particolareggiato non solo per bonificare e completare 
						un pezzo importante del territorio cittadino, ma anche 
						perché su una porzione equivalente alla parte di sua 
						proprietà progettava di realizzare case popolari. Sotto il profilo urbanistico 
						non c'erano problemi, l'area costituiva un "comparto" 
						ove destinazioni d'uso, volumi e quant'altro già erano 
						pianificati. Il Comune e noi controllavamo l'82% della 
						proprietà, mancava un residuo 18% costituito da un'area 
						di forma irregolare posta là dietro, contro la ferrovia 
						e senza nessun affaccio sulla strada. Quest'area era 
						parte di un fallimento e sarebbe andata all'asta di lì a 
						poco. La sua appetibilità era assai bassa ed una volta 
						acquisita avremmo potuto, congiuntamente al Comune, 
						gestire il 100% del progetto. Ma avevamo fatto 1 conti senza 
						l'oste, Zucchelli. Un oste imbottito di denaro. L'asta 
						ebbe luogo i'8 febbraio 2001 partendo da un valore di 
						perizia (alto, secondo noi) di 5 miliardi di lire. 
						Montanari partecipò all'asta. Per Coop Estense 
						intervenne in persona Mario Zucchelli, il presidente, 
						che, a colpi di miliardi, sbaragliò il povero Montanari, 
						il quale si difendeva a 100 milioni per volta. Zucchelli 
						si aggiudicò l'area per la cifra impossibile di 23 
						miliardi di lire, con tre rilanci non ancora finali da 
						900 milioni ciascuno. Ad un ulteriore rilancio di 100 
						milioni da parte di Montanari, che era così arrivato 
						alla cifra pazzesca di 21 miliardi e 100 milioni, 
						Zucchelli fece un'ultima battuta da un miliardo e 900 
						milioni. È così che Zucchelli diventa un 
						Grande Maestro dì fuochi artificiali, forse meriterebbe 
						un cavalierato: un simile botto finale non si era mai 
						visto. La cosa fece molto rumore e 
						generò brucianti articoli sulla stampa locale, sul 
						Resto del Carlino (titolo del 15 febbraio 2001: «Che 
						pasticcio lungo i binari. Gare miliardarie per pochi 
						ettari: cosa c'è dietro?») ma anche sulla Gazzetta di 
						Modena, foglio appartenente al gruppo L'Espresso e 
						dunque sicuramente democratico. «Pur di "stoppare" il 
						concorrente Esselunga», così cominciava l'articolo 
						pubblicato dalla Gazzetta di Modena il 13 
						febbraio 2001, «e trasferire in posizione strategica, 
						ampliandolo, il proprio supermercato della Sacca, la 
						Coop ha pagato un terreno a peso d'oro, sborsando 
						addirittura 18 miliardi in più rispetto alla stima fatta 
						dai periti. Una società di Coop Estense ha "sfilato" 
						l'area al concorrente, Edilmontanari, per 23 miliardi. 
						Ha pagato quattro volte il valore di stima un'area pur 
						di impedire l'apertura di un concorrente "scomodo" come 
						Esselunga» (allegato 4). Divenuta proprietaria di questa 
						porzione minoritaria del comparto, Coop rimise in 
						discussione il Piano particolareggiato che era in 
						avanzata via di sviluppo, pretendendo che nella 
						ripartizione delle funzioni e degli edifici le venisse 
						attribuito il supermercato. Esso era originariamente 
						progettato sul lato opposto del comparto, sulla strada 
						e ben visibile al pubblico (si veda ancora l'allegato 
						3). Questo originò una serie di 
						incontri con i funzionari del Comune di Modena ed anche, 
						da parte mia, con l'assessore all'Urbanistica, signora 
						Palma Costi. È costei una donna di mezza età, magra, 
						cortese, irremovibile. Di scuola inconfondibile. Con 
						calma olimpica può ripetere all'infinito ti medesimo 
						ritornello: «L'unica soluzione per voi è un accordo con 
						Coop». Dandoci un sublime esempio di scuola democratica, 
						ci ha anche offerto, in alternativa, due posizioni 
						indecenti, là in campagna, in fregio ad una cascina, per 
						insediarvi un'Esselunga in cambio di quella di via 
						Canaletto, da cedersi a Coop. Per chi non lo sapesse, va 
						anche detto che, secondo la legge italiana, chi 
						controlla il 75% di un comparto (o più del 75%, 
						naturalmente) può portare avanti il progetto imponendo 
						la propria soluzione a chi è minoritario, pur nel 
						rispetto dei suoi diritti edificatorii. Noi, col Comune 
						di Modena, facciamo l'82%. Ca va sans dire,
						nulla si muove o si muoverà senza il benestare 
						democratico di Coop. E così a Modena in via 
						Canaletto stanno, con una vasta area abbandonata, 50 
						miliardi di lire sborsati da anni, il blocco della 
						ristrutturazione di un pezzo centrale della città e, 
						probabilmente, la mancata realizzazione di case popolari 
						che il Comune aveva in progetto. Vignola è una ridente cittadina 
						in provincia di Modena, ai piedi dell'Appennino, famosa 
						per le sue ciliegie e per il suo castello. A Vignola 
						avevamo - abbiamo - un amico, il cavaliere del lavoro 
						Ermanno Fabbri, inventore e produttore di fama mondiale 
						di macchine per l'imballaggio di prodotti 
						deperibili quali carni, frutta, verdura. A Vignola siamo 
						stati tante volte in questi ultimi quarantanni e molte 
						volte ci siamo dati da fare per piazzarvi una Esselunga. 
						Sulla provinciale che viene da Modena. O sotto il 
						castello. Ma abbiamo sempre trovato insormontabili 
						difficoltà. Finché il signor Sergio Sernesi di Modena 
						pochi anni fa non indirizzò la nostra attenzione su un 
						terreno con destinazione agricola, ma suscettibile di 
						essere trasformato in commerciale. Infatti il Consiglio comunale 
						di Vignola, con delibera del 29 aprile 2002, ne aveva 
						deciso l'inserimento tra le "aree strategiche" per lo 
						sviluppo della città, classificandolo come «area con 
						destinazione commerciale e caserma dei carabinieri» 
						(documenti a disposizione). Il terreno apparteneva - 
						attraverso la società Vignola Due - alla IGEA di 
						Castelfranco Emilia (Modena), sulla quale domandammo 
						informazioni al cavalier Fabbri. Egli ci disse che si 
						trattava di una cooperativa edilizia comunista 
						accreditata ed attendibile. Così, con compromesso del 23 
						luglio 2003 e con versamento di una caparra di 5.324.000 
						curo, ci impegnammo in questa intrapresa. Fra le altre "aree strategiche" 
						del Comune vi era anche quella destinata ad un nuovo 
						complesso scolastico. Onde facilitare il percorso per 
						la trasformazione urbanistica del terreno di nostro 
						interesse - da destinazione agricola a commerciale, come 
						detto - IGEA propose (come spesso si fa, la chiamano 
						"urbanistica contrattata") al Comune un "accordo di 
						pianificazione", in base all'articolo 18 della legge 
						regionale numero 20/2000, in virtù del quale la società 
						medesima avrebbe versato all'amministrazione civica 2,5 
						milioni di euro per contribuire alla costruzione del 
						nuovo complesso scolastico. In tal modo si sarebbe 
						aperta la strada alla realizzazione di un supermercato 
						con superficie totale del fabbricato di 5.000 metri 
						quadrati. Con delibera del 23 dicembre 
						2004, la Giunta comunale di Vignola, dopo aver dato 
						atto esplicitamente che l'accordo proposto da IGEA 
						rispondeva «all'imprescindibile interesse» 
						dell'amministrazione, «all'interesse rilevante della 
						comunità» ed appariva «coerente con gli obbiettivi 
						pianificatori», conferiva mandato al sindaco ed al 
						dirigente della Struttura di pianificazione territoriale 
						per dare corso all'accordo stesso. Il 31 marzo 2005 
						l'accordo veniva definitivamente approvato dalla Giunta 
						comunale. L'adozione della conseguente 
						variante al Piano regolatore generale veniva messa 
						all'ordine del giorno del Consiglio comunale che avrebbe 
						dovuto tenersi il successivo 8 aprile (si deve sapere 
						che nel balletto dell'urbanistica italiana bisogna prima 
						arrivare all'"approvazione" per poi ottenere 
						l'"adozione"). Ma il 7 aprile 2005, Coop 
						Estense, a firma del presidente Mario Zucchelli, inviava 
						al sindaco di Vignola una lettera (allegato 5), 
						con cui lamentava l'insufficienza del locale 
						supermercato Coop e dichiarava la propria 
						disponibilità, a fronte di opportunità di «sviluppo e 
						qualificazione della presenza dell'attuale negozio», a 
						contribuire a iniziative di pubblica utilità. In 
						particolare, guarda un po', alla realizzazione di un 
						edificio scolastico... Il 7 aprile Zucchelli scriveva. 
						Il 7 aprile il sindaco riceveva. E, prontissimo, si 
						attivava. Per lui la lettera di Zucchelli, redatta di 
						sicuro a più mani in sedi "democratiche", indubbiamente 
						non fu una sorpresa. Poiché, immediatamente, l'S aprile 
						2005, con impressionante contestualità, accaddero tre 
						cose. Alle ore 17 la Giunta di 
						Vignola deliberò di conferire mandato al dirigente 
						della Struttura di pianificazione territoriale ed al 
						sindaco di valutare l'intervenuta proposta di Coop 
						Estense. Alle ore 20.30 il Consiglio 
						comunale di Vignola, anziché adottare - come previsto - 
						la variante al Piano regolatore generale per il cambio 
						di destinazione urbanistica dell'area ICEA-Esselunga, 
						deliberò, sempre con riferimento alla "proposta" di Coop 
						Estense, di rinviare ogni decisione ad un ulteriore 
						Consiglio fissato per il successivo 11 aprile. E sempre alle ore 20.30 il 
						Consiglio comunale di Spilamberto, Comune adiacente a 
						Vignola, senza alcun indugio deliberò invece, con una 
						procedura del tutto simile a quella usata a Vignola, di 
						adottare una variante di Piano regolatore generale che 
						consentiva a Coop Estense di realizzare un nuovo 
						supermercato su area anch'essa di proprietà di IGEA. Infatti, a nostra insaputa, 
						IGEA, attraverso complesse e vantaggiose operazioni 
						societarie (con un esborso di 1.800.000 euro per due 
						aree di un ben più alto valore finale), era entrata in 
						possesso di due terreni in Spilamberto di proprietà dei 
						conti Rangoni Machiavelli, uno a destinazione agricola e 
						l'altro a destinazione "spettacoli viaggianti" (circo, 
						luna park, eccetera) ed aveva raggiunto un accordo con 
						Coop Estense ed il Comune dì Spilamberto per modificare 
						la destinazione d'uso di entrambi i terreni: quello 
						agricolo sarebbe stato trasformato in commerciale, 
						l'altro da "spettacoli viaggianti" in edilizia 
						residenziale! L'11 aprile 2005 il Consiglio 
						comunale di Vignola, ritenuto che la proposta avanzata 
						da Coop Estense rappresentasse «un fatto nuovo rispetto 
						alla situazione che si era sviluppata inizialmente e 
						maturata», decideva di ritirare la proposta di variante 
						al Piano regolatore generale, azzerando senza alcuna 
						motivazione ulteriore l'accordo approvato dalia Giunta. 
						Il nostro progetto era stato affossato. La distanza tra l'ipotizzato 
						insediamento di Esselunga in Vignola e quello di Coop a 
						Spilamberto è di tre minuti di automobile. La Coop di 
						Spilamberto avrebbe avuto vita dura con una Esselunga 
						tanto vicina! Ma siamo lontani dall'epilogo. 
						Stoppare l'iniziativa altrui non sufficit. 
						Infatti, il 12 gennaio 2007, il "nostro" terreno di 
						Vignola viene venduto da IGEA, a rogito dei notaio Anna 
						Maria Cesarani di Castelfranco Emilia, alla Monte Paschi 
						Fiduciaria Spa, con sede legale a Siena, società della 
						banca Monte dei Paschi di Siena Spa, la banca più 
						democratica d'Italia. Consiglieri di amministrazione 
						della medesima sono, fra l'altro, Turiddo Campaini, 
						presidente di Unicoop Firenze, e Pierluigi Stefanini, 
						presidente di Unipol Assicurazioni. Chi ci sia dietro 
						questa fiduciaria è cosa che a noi non e dato sapere: se 
						ci sarà un magistrato che avrà voglia di approfondire, 
						forse ce lo dirà. A tal proposito è interessante 
						chiudere questo episodio con le dichiarazioni rese il 22 
						settembre 2006 a La Repubblica dal cavaliere del 
						lavoro Leonardo Dei Vecchio (allegato 6), che ha 
						la fortuna, essendo produttore di occhiali, di non avere 
						per concorrente quello che fu il Partito Comunista 
						Italiano: costoro fanno tante cose, gli occhiali no, per 
						adesso. Nella parte dell'intervista che riguarda la sua 
						breve esperienza nei supermercati acquistati dallo Stato 
						assieme ai Benetton per poi, alla fine, venderli ai 
						francesi, dice fra l'altro Del Vecchio: «Trattavamo con 
						un Comune. Concedevamo tutto quello che chiedevano: 
						costruzione di scuole, verde pubblico, servizi sociali. 
						Tutto a posto, eppure alla fine la licenza ci veniva 
						negata. E in seguito il terreno se lo prendevano le 
						Coop». Ed ancora: «Non si può rimanere immacolati 
						nuotando in uno stagno torbido. Allora bisogna 
						lasciare». Noi non abbiamo lasciato. 
						Abbiamo nuotato in uno stagno torbido, fetente. Ma, caro 
						cavalier Del Vecchio, io le assicuro che noi siamo 
						immacolati.       2. PIERLUIGI 
						STEFANINI E COOP ADRIATICA     Stella di prima grandezza nel 
						firmamento emiliano è Pierluigi Stefanini. Nasce il 28 
						giugno 1953 a Sant'Agata Bolognese ed assolve la scuola 
						dell'obbligo. Per dieci anni è operaio nella società GD 
						della famiglia Seragnoli, leader nella produzione di 
						macchine per l'imballaggio. Dal 1978 al 1990 è dirigente 
						del Partito Comunista Italiano di Bologna. Diventa 
						segretario del PCI nel 1985. Dal 1990 al 1998 è 
						presidente di Legacoop di Bologna. Nell'ottobre del 1988 viene 
						nominato presidente dì Coop Adriatica. È consigliere 
						della Camera di Commercio di Bologna, della Società 
						Aeroporti di Bologna e, fino al 2004, membro del 
						comitato scientifico di Nomisma (società per azioni di 
						studi economici fondata a Bologna nel 1981 da Romano 
						Prodi, ndr). Oltre a ricoprire molte altre 
						cariche, sia ora sia nel passato, in svariati enti, 
						quali Fiera di Bologna, Banca di credito cooperativo di 
						Bologna, Fondazione Cassa di risparmio di Bologna, 
						Stefanini nel corso del 2006 diviene consigliere dì 
						amministrazione del Monte dei Paschi di Siena e 
						presidente di Unipol Assicurazioni.   Bologna, via 
						Andrea Costa   Durante la costruzione del 
						nostro centro commerciale di Casalecchio di Reno, nel 
						1998, l'impresa Galotti, che lo stava realizzando, ci 
						presentò il dottor Franco Goldoni. Era - attraverso la 
						società A. Costa 2000 - proprietario dell'area ex Hatù 
						di via Costa a Bologna, presso Porta Saragozza, ove un 
						tempo si facevano ciucciotti ed altri utili "accessori" 
						in gomma, detti appunto "goldoni". La Hatù, venduta a 
						stranieri, si era trasferita fuori città. L'area era molto ben 
						posizionata e vi era consentita la realizzazione di un 
						supermercato. Il 19 maggio 1999, Esselunga - attraverso 
						la società Iridea - sottoscrisse un accordo per 
						l'acquisto di quest'area e del supermercato a costruirsi 
						(con due piani di parcheggi interrati), per un importo 
						di 40 miliardi di lire. Il progettista e direttore dei 
						lavori, Gianfranco Masi, noto architetto dì cooperative, 
						mostrò subito di non gradire il nostro intervento. Si 
						oppose in ogni modo alla nostra richiesta di modificare 
						parzialmente il progetto e di ripulire un po' la sua 
						singolare creatura architettonica. Che, con sua 
						soddisfazione, ora là sta a testimoniare la creatività 
						del terzo millennio. L'architetto Masi era il 
						professionista al quale Goldoni aveva affidato 
						l'incarico. Come usa in Italia, ci si affida spesso ad 
						architetti accreditati presso il potere locale. Nel corso degli scavi, vennero 
						alla luce dei resti archeologici (allegati 7, 
						8, 9), che il ministero dei Beni culturali, 
						attraverso la Soprintendenza archeologica dell'Emilia 
						Romagna, identificò come le fondazioni di un complesso 
						rustico di età etrusca caratterizzato dalla «rarità 
						della tipologia edilizia, di indubbio e rilevante 
						interesse archeologico»; sarà stato certo un caso, ma 
						questi preziosi resti etruschi si trovavano proprio al 
						centro del futuro negozio (allegalo 10). Il 16 
						novembre 1999 il ministero, a firma del direttore 
						generale Mario Serio, ministro essendo la signora 
						Giovanna Melandri, appose il vincolo. Non si tocca più 
						niente. Seguirono poi gli atti di rito: notifica alla 
						proprietà, al sindaco del Comune di Bologna, eccetera. 
						L'impatto sull'opera a costruirsi era devastante. 1 
						parcheggi interrati irrealizzabili. La strada della 
						rimozione con collocazione altrove dei resti 
						archeologici ci fu detta non percorribile. Inoltre la 
						Soprintendenza, come comunicatoci dal progettista Masi, 
						per ben tre volte aveva chiesto che il pavimento del 
						supermercato venisse realizzato in lastre di cristallo
						(allegato 11), in modo tale che dal negozio O 
						pubblico potesse fruire dell'inestimabile reperto. 
						Personale e clientela ne avrebbero goduto dall'alto, 
						camminando, per così dire, sul vuoto. Ti 16 febbraio 2000, dopo le 
						inutili trattative condotte da Masi e Goldoni con la 
						Soprintendenza, di fronte a tali, insormontabili 
						ostacoli, la società Costa scrisse a Iridea-Esselunga: 
						«Riteniamo di dover dare per passata questa estenuante 
						trattativa che si protrae inutilmente ormai da oltre 
						otto mesi senza che si veda la luce di una possibile 
						conclusione, con ingenti danni per noi». Il 17 febbraio 
						2000 Iridea a sua volta rispose alla società Costa: 
						«Quella collaborazione che abbiamo sempre sperato di 
						trovare in campo tecnico, indispensabile a qualsivoglia 
						felice conclusione, in realtà, non sussiste, e ciò porta 
						ad ostacoli enormi per ogni prosieguo, con ogni 
						conseguente sfinimento per noi. A fronte di ciò, dopo 
						aver molto meditato, riteniamo cosa saggia prendere atto 
						della Vostra decisione di interruzione di ogni 
						trattativa, rimanendo quindi in attesa della 
						restituzione della somma di lire 2.000.000.000 
						(due-miliardi) a Vostre mani». In tal modo nel febbraio 2000 
						veniva consensualmente sciolto l'impegno tra Esselunga 
						ed il dottor Franco Goldoni. il successivo 20 aprile il 
						Consiglio di amministrazione di Coop Adriatica, 
						presieduto da Pierluigi Stefanini, deliberava l'acquisto 
						del centro commerciale di via Costa in Bologna 
						(documento a disposizione], mentre 15 giorni dopo, 
						il 5 maggio 2000, il soprintendente ai Beni archeologici 
						dell'Emilia Romagna avrebbe comunicato il proprio parere 
						favorevole al «recupero, restauro, trasferimento e 
						valorizzazione dei resti antichi in altra area», come 
						riportato nel successivo atto di acquisto, a rogito del 
						notaio Federico Rossi in Bologna, tra Coop Adriatica ed 
						il dottor Goldoni (documento a disposizione] . Vi si dice, fra l'altro: «Si 
						premette inoltre che è stato rinvenuto, entro il 
						perimetro nel quale sorge il complesso immobiliare, un 
						insediamento etrusco e più precisamente 
						quell'insediamento che insiste sull'area evidenziata con 
						tratteggio grigio dalla planimetria e notifica di 
						vincolo consegnati che, in copia, si allega al presente 
						atto sotto la lettera "B", e che, conseguentemente, il 
						ministero dei Beni culturali ha apposto - esclusivamente 
						sulla detta arca tratteggiata - il vincolo di 
						conservazione, regolarmente trascritto a Bologna il 15 
						febbraio 2000 all'ari. 3802 noto alle parti contraenti, 
						vincolo circa il quale è in corso pratica di richiesta 
						dì cancellazione, a seguito di diversa allocazione dei 
						reperti archeologici; a tal proposito, con comunicazioni Prot. N. 4861 del 5.5.2000 e Prot. N. 10964 del 
						4.9.2001, il 
						Soprintendente per Ì Beni archeologici dell'Emilia 
						Romagna di Bologna ha espresso parere favorevole alla 
						richiesta di nulla osta per il recupero, restauro, 
						trasferimento e valorizzazione dei resti antichi in 
						altra area. Resta ovviamente inteso che tutti gli oneri, 
						di qualsivoglia natura, derivanti da detto progetto dì 
						ricollocamento dei reperti archeologici non potranno in 
						alcun caso essere posti a carico degli acquirenti». Ad un lettore distratto vorrei 
						permettermi di far osservare: a fine febbraio Esselunga 
						si ritira; il 20 aprile la Coop di Stefanini delibera; 
						il 5 maggio il Soprintendente comunica di aver già dato 
						parere favorevole. A Bologna, in via Costa, è operante 
						dal 17 settembre 2002 un supermercato di Coop Adriatica, 
						presidente Pierluigi Stefanini, coi suoi parcheggi 
						interrati e senza pavimenti di cristallo. In una gelida mattina di 
						gennaio, un sabato, e più precisamente il 21 gennaio 
						2006, sono andato di persona alla ricerca dei "miei" 
						preziosissimi reperti etruschi. Li ho trovati nella 
						"zona verde", all'apparenza abbandonata, in fondo alla 
						via della Nuova Certosa, a Bologna. In un recinto con la 
						base in cemento, sovrastato da una squallida griglia 
						zincata, stavano '"valorizzati", e coperti da una 
						plastica nera in gran parte nascosta dalle erbacce, i 
						segni di una perduta civiltà (allegati 12, 13 e 14). Gli onorevoli ministri Cario 
						Giovanardi e Rocco Buttiglione, quest'ultimo allora al 
						dicastero dei Beni culturali, edotti di quanto sopra 
						tentarono di sollevare il caso in Parlamento. Impudenti. 
						Come siano andate a finire queste faccende politiche non 
						lo sappiamo, pensiamo in niente. Mi sembra però 
						interessante ricordare lo starnazzo di Coop Adriatica, 
						la quale diffuse quella che II Resto del Carlino 
						(allegato 15) definì una «nota piccata» in cui 
						negava ogni ipotesi di favoritismo e «qualsiasi tipo di 
						responsabilità amministrativa». La Coop, che liquidava la 
						questione del nuovo supermercato come «esempio di 
						pregiudizio politico e ideologico», si dichiarava 
						«sorpresa dei giudizi e delle accuse diffamatorie 
						infondate espressi da un deputato della Repubblica», 
						cioè l'onorevole Emerenzio Barbieri (UDC), che aveva 
						presentato una interrogazione parlamentare. Il deputato 
						avrebbe tentato di «accreditare un'immagine distorta o 
						addirittura illecita del mondo cooperativo e delle sue 
						diverse espressioni». In casa mia ho quattro 
						sorridenti teste dì Buddha cui sono proprio molto 
						affezionato, non soltanto perché mi vengono dalla 
						collezione di mio padre. Sono siamesi, sono in bronzo e 
						con le loro facce di bronzo stanno a dimostrare tutta la 
						serenità e la grazia di questi orientali. Anche in 
						questo in Italia siamo più forti, benché meno 
						sorridenti. A questo punto, mi si consenta 
						una considerazione tutta emiliana. Come è possibile che 
						due personaggi di spicco, Mario Zucchelli, presidente di 
						Coop Estense, e Pierluigi Stefanini, presidente di Coop 
						Adriatica, nel frattempo assurti ai più alti vertici del 
						potere economico italiano - uno consigliere 
						d'amministrazione, l'altro presidente di Unipol 
						Assicurazioni, ed il primo addirittura presidente di 
						Holmo e Finsoc, che di Unipol sono le controllanti - 
						assumano posizioni tanto spericolate? Di primo acchito verrebbe da 
						pensare che fossero estranei, nell'assoluta ignoranza 
						dei fatti. Ma Zucchelli era lui, in persona, all'asta 
						del terreno di Modena. Cosi come fu Stefanini a 
						presiedere i Consigli di amministrazione di Coop 
						Adriatica per l'affare di via Costa a Bologna. E allora? Della loro 
						intelligenza non si può certo dubitare, Non stanno forse 
						lassù, nell'Olimpo del potere economico di Unipol, Coop, 
						Montepaschi, Granarolo (con la Centrale del Latte di 
						Milano) e tanti begli appalti e costruzioni? Com'è 
						possibile che costoro mettano a repentaglio la loro 
						adamantina "diversità" per silurare delle esselunghe 
						tanto piccole, quasi insignificanti? L'unica spiegazione plausibile 
						a tanta sicurezza può risiedere solo nella loro 
						appartenenza ad un partito strapotente, nella simpatia 
						di tanti magistrati, nella distrazione di troppi 
						giornalisti. Alla faccia della "completezza 
						dell'informazione".           3. TURIDDO CAMPAINI 
						E UNICOOP FIRENZE     Turiddo Campaini è il 
						presidente di Unicoop Firenze. Ci crede. È un asceta. 
						Nasce il 15 ottobre 1940 a Montelupo Fiorentino. Si 
						diploma in ragioneria. Nel 1958 viene assunto in una 
						vetreria di Empoli. Nel 1963 entra nella Cooperativa del 
						Popolo di Empoli e nel 1971 ne diviene presidente. Con 
						la fusione di Coop Empoli, Coop Etruria e Toscocoop in 
						Unicoop Firenze, nel 1973 ne assume la presidenza. Dal 
						1980 al 1985 è membro del Consiglio comunale di Empoli 
						per il Partito Comunista Italiano. E' membro della giunta della 
						Camera di Commercio di Firenze. E' consigliere di 
						amministrazione della banca Monte dei Paschi di Siena. 
						Temporaneamente, nel 2006, dopo lo scandalo 
						Unipol-Consorte, è stato presidente dì Finsoe, la 
						cassaforte della compagnia assicurativa. Non ho mai conosciuto Turiddo 
						Campaini, sebbene entrambi da una vita siamo sulla scena 
						toscana, io assai più modestamente. So che vive a 
						Empoli, donde ogni giorno si reca a Firenze; che vi 
						abita con la moglie e la mamma e che non ha figli. Dallo 
						scorso anno - come da intervista a La Repubblica 
						del 22 ottobre 2006 - so altresì che gli abbiamo 
						procurato molte notti insonni: «Anche Campami ha passato 
						qualche notte insonne: e l'incubo era proprio Capretti. 
						"È vero. Agli inizi degli anni '60, lui costruiva i 
						primi grandi supermercati, noi avevamo degli spaccetti. 
						Alla fine dei 70, stavamo ingrandendoci: ma quante volte 
						mi sono chiesto se ce l'avremmo fatta davanti alla sfida 
						di Esselunga. Sì, notti insonni"». Me ne dispiace, benché lo trovi 
						anche giusto. Quante, di notti insonni, ne ha procurate 
						lui a noi? Questo che segue è uno soltanto degli 
						episodi.    Firenze, via 
						Milanesi e piazza Leopoldo   Esiste in via Milanesi, una 
						strada secondaria di Firenze, il primo supermarket 
						della Toscana, aperto da Esselunga il 9 febbraio 1961. 
						Da Milano a Firenze. Perché? Le licenze di commercio 
						erano a quel tempo rilasciate dal prefetto, su parere 
						della Camera di Commercio. Visto il successo della nuova 
						forma di distribuzione a Milano ed il suo sorprendente 
						effetto calmieratore sui prezzi - dal 20% al 40% in meno 
						dei prezzi correnti - il prefetto di Firenze prese 
						contatto con la Supermarkets Italiani e le rilasciò 
						cinque licenze commerciali. Naturalmente, troppo 
						innovatore, fu rimosso. Via Milanesi fu il primo dei 
						cinque negozi. Le varie aperture furono pesantemente 
						osteggiate da molte forze contrarie, innanzi tutto dal 
						sindaco della città Giorgio La Pira. «Gli incontri con 
						le autorità si susseguirono senza risultati, 
						soprattutto a causa della ferma opposizione esercitata 
						dal sindaco della città fiorentina La Pira, la cui 
						posizione politica di cattolico di sinistra lo portava a 
						guardare con sospetto l'operazione della società 
						italo-americana», recita a pagina 90 il libro La 
						spesa è uguale per tutti11, Ed ancora: 
						«La licenza pervenne al prefetto che la fece avere 
						subito alla società, senza che ne fosse data alcuna 
						comunicazione al sindaco. Dopo l'apertura del 
						supermercato il 12 settembre, La Pira si recò 
						personalmente a Roma per protestare, ma si trovò dì 
						fronte alla decisa posizione del ministro Colombo. Non 
						restò che accettare il fatto compiuto, salvo ritardare 
						l'apertura dei successivi due punti di vendita»12. A quel tempo, a Firenze, altre 
						forze sì opposero duramente all'intraprendere di 
						Supermarkets Italiani (ora Esselunga). Per primi i 
						comunisti e poi la CGIL. Aggiunge il volume citato: 
						«Infuocate riunioni si tennero in Consiglio comunale, 
						dove si verificò una violenta contrapposizione tra 
						democristiani, che sostenevano con dati alla mano la 
						funzione di calmiere dei prezzi esercitata dalla nuova 
						forma di distribuzione che si risolveva in un vantaggio 
						per tutti i consumatori, e comunisti, che accusavano il 
						supermercato "americano" di adottare una politica di 
						bassi prezzi solo strumentalmente, al fine di 
						distruggere la concorrenza, per creare una situazione di 
						monopolio di cui sarebbe stato alla lunga l'unico 
						beneficiario»13. Per non parlare dei socialisti. 
						Scriveva l'organo del Partito Socialista Italiano, 
						L'Avanti!: «Se oggi le società di 
						supermercati si presentano con prezzi di assoluta 
						concorrenza, sostengono i piccoli commercianti, è perché 
						vogliono lare piazza pulita di tutti i piccoli e medi 
						rivenditori. A operazione conclusa, quando cioè a Milano 
						ci saranno 50 o 100 supermercati, allora il monopolio 
						rivelerà il suo vero volto e si rivarrà ad usura sui 
						consumatori. Alle spalle dei supermercati vi è il 
						capitalismo americano, italiano, olandese. Attraverso 
						una grande operazione, esso tende a controllare, 
						gradualmente, tutto il commercio al minuto. Saprà lo 
						Stato intervenire al momento opportuno per impedire il 
						"cartello alimentare"?». Malgrado le ideologie 
						ottocentesche che vi si contrapponevano, e gli interessi 
						di parte, il moderno si fece strada. Faticosamente. Fatto sta che in via Milanesi a 
						Firenze esiste questa prima Esselunga del Centro Italia; 
						si tratta di un piccolo negozio di 800 metri quadrati di 
						vendita, senza un solo posto macchina per i clienti. Da 
						un trentennio è una struttura obsoleta. Durante gli anni '80, una 
						fabbrica di pile, la Superpila, si trasferiva fuori 
						città, lasciando libera, a poche centinaia di metri di 
						distanza da via Milanesi, in piazza Leopoldo, l'area 
						del suo vecchio stabilimento, ubicazione 
						incomparabilmente più bella. L'arca era oggetto da parte 
						del Comune di un "Piano Urbanistico di 
						Riqualificazione". Vi era previsto un supermercato. Ci attivammo e nel dicembre 
						1988 stipulammo un compromesso coi costruttori, nuovi 
						proprietari, per un valore di 21 miliardi di lire 
						(documento a disposizione). Trascorsi sette anni e 
						scaduto il primo compromesso, nel giugno del 199.5 
						l'accordo fu rinnovato per l'acquisto di un supermercato 
						ed i relativi parcheggi (oltre 400 posti macchina), 
						chiavi in mano, al prezzo di 32 miliardi di lire. 
						Durata del contratto: due anni (documento a 
						disposizione). Tuttavia, le lungaggini delle 
						pratiche comunali non consentirono di arrivare alla 
						conclusione, ed alla scadenza del 30 giugno 1997 la 
						proprietà si trovò libera da ogni impegno con noi. Ci 
						diede 30 giorni di tempo per decidere, dicendosi 
						tallonata da altri. Tallonata? La trattativa si 
						fece pesante, l'importo e le condizioni via via più 
						difficili da accettare. Nell'incertezza, poi, di 
						arrivare alla conclusione della pratica edilizia col 
						Comune, incagliata da anni. Fu cosi che Unicoop Firenze, 
						società cooperativa di consumo a responsabilità 
						limitata, forte dei suoi illimitati mezzi finanziari, 
						il 7 agosto 1997 acquistò l'intera area nuda con i 
						relativi diritti edificatori ad una cifra per noi 
						impossibile: 29 miliardi di lire (allegato 16). 
						Più di un milione di lire il metro cubo, più di tre 
						volte quelli che erano i valori dell'epoca. Per 
						realizzare poi il supermercato di oltre 4.000 metri, 
						occorreva un investimento di altre decine di miliardi. Noi avevamo tentato e ritentato 
						inutilmente per nove anni. Coop nel giro di tre anni 
						progettò ed ottenne la concessione edilizia. A Firenze, in piazza Leopoldo, 
						è operante una Coop. Ed Esselunga si trascina in via 
						Milanesi col suo negozietto vecchio di quasi mezzo 
						secolo. Quale opportunità abbia perso 
						Firenze, nelle persone dei suoi cittadini-consumatori, 
						dirlo non sta certamente a me.    11 
						Emanuela Scarpellini, La spesa è 
						uguale per tutti, 
						Marsilio, 2007. Il volume, la cui autrice è docente di 
						Storia contemporanea all'Università degli Studi di 
						Milano e alla Georgetown University di Washington DC, 
						racconta la nascita del supermercato in Italia. 12
						Ibid., pag. 92. 13
						Ibid., pag. 90. Per chi volesse meglio approfondire, 
						tale volume bene descrive, da pag. 83 in avanti, la 
						nostra vicenda fiorentina e il suo fantastico iniziale 
						successo.            4. BRUNO CORDAZZO E 
						COOP LIGURIA     Bruno Cordazzo nasce a Chiavari 
						il 24 giugno 1943. Dei suoi studi non è dato 
						sapere. Ricopre diverse cariche all'interno del mondo 
						cooperativo ligure fino a diventare, nel 1999, 
						presidente di Coop Liguria. Nell'aprile del 2004 diventa 
						consigliere di amministrazione di Unipol Assicurazioni. 
						Dal settembre 2005 è consigliere di amministrazione di Holmo Spa.   Genova Rivarolo 
						in Valpolcevera   È questo un episodio di circa 
						vent'anni fa. Mi si potrà dunque obiettare che è un 
						fatto vecchio, lontano. Perché tirarlo fuori con tanto 
						ritardo? Intanto perché fra i tanti soprusi subiti, 
						questo era allora l'unico che potessimo documentare. 
						Poi perché è proprio la somma di questi episodi che ha 
						determinato la mia decisione di scrivere il presente 
						j'accuse. Infine perché Bruno Cordazzo, con le sue 
						allucinanti dichiarazioni di due anni fa, contemporanee 
						agli attacchi di un altro attore della Coop, Aldo Soldi, 
						di cui diremo successivamente, ravvivò, rivitalizzò 
						questo male oscuro che ci eravamo tenuti dentro: Genova 
						Rivarolo. Nel giugno 2005 Carrefour, la grande 
						multinazionale francese, dopo anni dì battaglie 
						giudiziarie, ottiene dal Consiglio di Stato una sentenza 
						ad essa favorevole a riprendere l'iter per la 
						realizzazione di un centro commerciale a Genova. A questa notizia, il presidente 
						di Coop Liguria, Bruno Cordazzo, da Chiavari, con una 
						impudenza che lascia esterrefatti, dichiara: «Quando si 
						va in casa di altri, si chiede permesso. Se si pensa di 
						avere dei diritti, questi vanno rivendicati con garbo; e 
						non facendo la voce grossa, minacciando le 
						amministrazioni locali» (allegata 17). Ed ancora, 
						secondo Cordaio, la differenza che passa tra Coop 
						Liguria e gruppi concorrenti, in termini di presenza sul 
						territorio, sta tutta nei rapporti con le istituzioni, 
						«Che vanno costruiti nel tempo», sostiene, «con il 
						dialogo, il confronto, la concertazione». Alla domanda 
						«E la penetrazione di Coop Liguria sul territorio?», 
						replica: «Frutto della capacità di rapportarsi con le 
						istituzioni, non certo di favoritismi». Esiste a Genova, in 
						Valpolcevera, una Esselunga, ma l'insegna è Coop. Come 
						mai? Negli anni '80 c'era in 
						Valbisagno una Coop: era stata una concessionaria della 
						Kawasaki (moto giapponesi), la quale aveva avuto una 
						parte della sua superficie dedicata alla vendita, quindi 
						con "destinazione urbanistica" atta al commercio al 
						dettaglio. Coop l'aveva acquistata e ne aveva fatto un 
						supermercato. Del pari, in Valpolcevera 
						esisteva allora una concessionaria di autoveicoli 
						appartenente alla società Pastore & Baldazzi il cui 
						titolare, Gianluigi Baldazzi, era un buon conoscente del 
						dottor Ferdinando Schiavoni, allora vicepresidente ed 
						amministratore delegato di Esselunga, e gli propose 
						un'operazione analoga. Esselunga acquistò l'immobile 
						il 15 ottobre 1984 e si impegnò nella sua 
						trasformazione. Il Comune di Genova, che aveva dato la 
						concessione edilizia per la ristrutturazione 
						dell'edificio a Pastore & Baldazzi, non consenti neppure 
						il trasferimento della concessione edilizia ad 
						Esselunga. Ecco un estratto del telex di Baldazzi 
						indirizzato a Schiavoni: «Durame la discussione in 
						merito a tale progetto, su tutti i membri della 
						commissione comunale gravavano forti condizionamenti 
						esercitati sia verbalmente che con lettera scritta dalle 
						Coop Liguria. Il fatto che la Esselunga venga a Genova 
						fa letteralmente terrorizzare le cooperative che si 
						stanno opponendo con tutte le loro forze, mezzi e 
						cattiverie di ogni genere, al vostro insediamento. 
						Essendo però il progetto presentato perfettamente 
						conforme alle leggi comunali vigenti e non potendovi 
						trovare alcun valido argomento di boicottaggio ma solo 
						semplice e sterile demagogie è stato deciso dalla 
						presidenza della commissione stessa di riportare il 
						progetto in discussione mercoledì 20 giugno p.v. per la 
						definitiva approvazione. Anche noi credevamo in una 
						reazione delle coop senza però prevedere che la stessa 
						potesse raggiungere tanta ferocia» (allegato 18). Fu realizzato comunque 
						l'edificio esistente, col suo pavimento in ''litomarmo 
						aureolato" grigio perla da 25 millimetri di spessore, 
						prodotto in esclusiva per Esselunga dalla ditta Ipar, 
						tuttora visibile. Ma l'Esselunga, là, non potè mai 
						aprire. La stessa amministrazione comunale - non siamo 
						in grado ora di dire nella persona di chi - disse e 
						ribadì al dottor Schiavoni che noi lì non avremmo mai 
						aperto. Scrisse ancora Baldazzi a 
						Schiavoni: «La domanda da noi presentata all'ufficio 
						Annona di Genova (...) è andata ieri in commissione 
						unitamente a quella da Voi presentata direttamente per 
						lo stesso locale di via Rivarolo 59: ambedue hanno avuto 
						esito negativo. Siamo venuti a conoscenza che dei 15 
						membri componenti la commissione, il rappresentante 
						comunista della CGIL ed il rappresentante della Lega 
						delle Cooperative sono stati gli unici due voti contrari 
						e hanno condizionato i restanti 13 membri, i quali si 
						sono poi astenuti dal proferire parola in merito e 
						quindi, tacendo, hanno determinato un voto che è stato 
						considerato negativo all'unanimità. Assurdo. Sistema 
						mafioso. Ora la nostra pratica sarà dall'Ufficio Annona 
						rimessa direttamente al Sindaco il quale dovrà decidere. 
						Il Sindaco stesso in un primo momento ci assicurò di 
						persona, in un colloquio con luì avuto, del suo 
						favorevole interessamento al buon esito della pratica. 
						Torneremo da lui per convincerlo dell'assurdità della 
						vicenda in generale e del rifiuto di concederci la 
						licenza in particolare, anche se è facilmente intuibile 
						che lo stesso Sindaco si sia lasciato prevaricare dalle 
						coop e dal partito comunista. In questa squallida 
						vicenda, emblema di coloro che ci amministrano, l'unica 
						nota positiva è data dal rifiuto di esprimere un parere 
						negativo da parte dei componenti del consiglio di 
						quartiere; infatti questi, avendo a capo il sig. Cassissa, comunista, ma galantuomo, non ha potuto 
						esprimere un voto favorevole come sarebbe stato suo 
						desiderio, del suo vice e di quasi tutti i membri del 
						consiglio stesso, perché il partito glielo ha vietato. 
						Noi avremmo l'intenzione di ricorrere al Tar assistiti 
						da uno dei migliori civilisti di Genova: l'Avv. 
						Professore Pericu Giuseppe» (allegato 19). A ristrutturazione 
						dell'immobile compiuta, dopo una resistenza di due-tre 
						anni, Schiavoni mi convinse a rinunciare, a passare la 
						mano. Nelle trattative che seguirono con Coop Liguria, 
						questa insistette perché noi rinunciassimo anche al 
						nostro progetto sull'area ex Bocciardo, posizione 
						prestigiosa, ai piedi della Valbisagno. Scriveva 
						Schiavoni a Cordazzo in una lettera del 30 marzo 1988: 
						«... costantemente informato e dei colloqui e delle 
						ulteriori vostre richieste in aggiunta alla cessione Baldazzi: rinuncia Bocciardo, subentro Proget. 
						Cos'altro? (...) Così come ho detto per telefono a 
						Barberinil4, credo sia indispensabile 
						incontrarsi...» (allegato 20).    14 
						Ivano Barberini era, in quel periodo, presidente 
						dell'Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori 
						ANCC.   Il 5 aprile Cordazzo così 
						rispondeva a Schiavoni: «Fin dal primo incontro con Lei 
						manifestai il nostro interesse all'operazione 
						immobiliare ex Baldazzi se e in quanto collegabile 
						(nelle forme meglio viste) all'operazione Bocciardo: con 
						il dott. Corte abbiamo cercato di esplicitare "le forme 
						meglio viste" non raggiungendo ancora un'ipotesi 
						concreta e giuridicamente sostenibile» (allegalo 21). Il 3 aprile 1989 il dottor 
						Schiavoni sottoscrisse un compromesso per la vendita a 
						Coop Liguria dell'immobile esistente, al puro costo 
						(documento a disposizione). Coop venne subito 
						immessa nel possesso della cosa compravenduta, un anno 
						prima del rogito, in modo da non perdere tempo 
						(allegato 22). Il 30 marzo 1990, a rogito 
						notaio Sciello in Genova (documento a disposizione),
						la proprietà fu trasferita a Coop, con atto di 
						vendita sottoscritto da Paolo De Gennis, tuttora 
						presente in qualità di vicepresidente di Esselunga. Egli 
						può testimoniare che in occasione del rogito gli fu 
						sottoposta ima dichiarazione che lui avrebbe dovuto 
						sottoscrivere e che ci impegnava a non prendere altre 
						iniziative in Liguria, De Gennis rifiutò. Coop aprì quel supermercato nel 
						mese successivo. Di licenza di commercio, detta 
						''Tabella VIII", per Esselunga non se ne parlava 
						proprio. Come Coop la chiese, la ottenne al solito 
						fulmineamente. Non abbiamo mai reso di 
						pubblico dominio questo sopruso, ma le dichiarazioni del 
						presidente dì Coop Liguria sopra riportate ci hanno 
						indotto a testimoniare un inconfutabile concerto. Vogliamo, solo per la cronaca, 
						ricordare che, nella circostanza, l'assistenza legale ci 
						fu prestata dall'avvocato Giuseppe Pericu. Nel nostro 
						caso non ebbe gran successo. Successivamente divenne 
						sindaco di Genova ed in tale qualità, contestualmente a 
						Cordaio, dichiarava: «Il Comune deve saper scegliere 
						tutelando prioritariamente le esigenze di un equilibrato 
						e corretto sviluppo urbanistico, contemperando gli 
						interessi dei vari soggetti in campo e l'interesse 
						pubblico, il territorio della città non può essere 
						consideralo luogo di ricezione passiva, amorfa, di 
						interessi privati. D'altra parte si tratta di interessi 
						privati che spesso dispongono di efficaci strumenti di 
						persuasione» (vedere ancora allegalo 17). Interessi privati? Non siamo 
						avvocati ma l'espressione «interessi privati in atti 
						d'ufficio» non ci è nuova. Escluso espressamente ogni 
						riferimento alla sua persona. Ho lasciato all'ultimo posto 
						l'episodio di Genova anche perche, così, è più agevole 
						chiudere andando a vedere che cosa succede nella regione 
						ove la Coop del presidente Cordazzo, così bravo, come 
						vedremo, a fare propaganda politica, è riuscita a tenere 
						fuori - data la sua capacità di «rapportarsi con le 
						istituzioni» - ogni valido concorrente. All'inizio del 2006, avendo in 
						programma l'apertura di un nostro negozio a La Spezia, 
						abbiamo incaricato una qualificata società francese di 
						rilevare lo stato del mercato in Liguria, raffrontato 
						con altre piazze. Lo abbiamo fatto due volte. II 
						risultato è stato sorprendente. In quella regione il 
						livello dei prezzi praticato dalla Coop e mediamente più 
						alto (di una percentuale variabile tra l'8,3 ed il 20,2) 
						che nelle altre piazze monitorate. In due tavole 
						sinottiche (allegali 23 e 24) diamo conto 
						della situazione delle due rilevazioni eseguite: la 
						prima nel febbraio 2006, la seconda nell'aprile 
						successivo. Mi permetto di esporre più 
						prosaicamente il concetto espresso da Geminello Alvi 
						nella sua prefazione a proposito della concorrenza nel 
						nostro settore, ove dice che è "di prossimità". Più 
						terra terra, come si esplica dunque la concorrenza nel 
						commercio al dettaglio? Dove si è presenti (ecco la 
						"prossimità"), sì sviluppa come in ogni altra attività 
						economica: prezzi, qualità, assortimento, livello di 
						servizio, pubblicità, fidelizzazione, eccetera. Ma se la 
						strada è sbarrata, e di entrare a Genova, Livorno o 
						Modena non se ne parla neppure, lì ci sarà poco da 
						concorrere, né ora né per il futuro. E allora questa non è più una 
						"distorsione della concorrenza". Questa è una 
						"distorsione permanente della concorrenza", una 
						"distorsione del territorio". Di più, mi sia consentito: 
						la distorsione dì una intera repubblica. I cooperatori 
						toscani chiamano questa mal-practice "controllo 
						del territorio", e lo sbandierano. Lo sbandierano nelle 
						loro assemblee, lo dichiarano agli impresari, ai 
						costruttori, ai quali è impedito di fare con noi 
						normalissimi affari. L'ulteriore conseguenza è, ad 
						esempio, che alla fin fine l'operatore Cordazzo usa la 
						sua posizione per un qualcosa che di commerciale, di 
						servizio, di sociale ha ben poco. Di politico tanto, 
						come si evince da una lettera del 4 aprile 2006 
						(allegato 25) inviata a tutto il "suo" personale 
						nell'imminenza delle elezioni politiche. E fa sorridere 
						che egli scriva che «occorre una politica fiscale che 
						combatta l'evasione, l'economia sommersa, eccetera», lui 
						che, per decenni, ha operato senza tasse, senza dare il 
						minimo contributo alla collettività, approfittando dei 
						servizi - sicurezza, scuole, strade, giustizia e 
						quant'altro - semplicemente a sbafo15. E col 
						ministro dell'Economia in carica che dichiara al 
						Corriere della Sera, il 10 giugno 2007: «Le tasse 
						sono una delle migliori espressioni della convivenza 
						pacifica» (forse Padoa Schioppa voleva dire «convivenza 
						civile»). Se almeno prezzi, qualità, 
						freschezza fossero a posto! Ma le visite che faccio al 
						"mio" scippato negozio di Genova Rivarolo, o a La 
						Spezia, o altrove in Liguria mi danno i brividi. E, 
						piaccia o non piaccia a Cordazzo, lo dichiaro 
						pubblicamente.   15 
						In Italia il taxpayer, il pagatore di tasse, è detto 
						tecnicamente "contribuente". Se contribuente non è, 
						cos'è? E' un Cordazzo.     5. ALDO SOLDI E 
						ANCC     Aldo Soldi nasce a Piombino il 
						25 novembre 1951. Si iscrive al Partito Comunista 
						Italiano nel 1972. Inizia la sua vita di lavoro nel 1974 
						come impiegato del Comune di Piombino. Si laurea in 
						scienze politiche a Siena nel 1975. Sempre nel 1975, a 
						24 anni, entra a far parte del Consiglio di 
						amministrazione della Coop «La Proletaria» di Piombino 
						(poi Coop Tirreno, poi Coop Toscana Lazio, infine 
						Unicoop Tirreno).  Viene eletto consigliere 
						comunale di San Vincenzo (Livorno) nelle file del 
						Partito Comunista italiano e lo sarà per tre mandati. 
						Diventa segretario di una delle due sezioni PCI di San 
						Vincenzo. Via via, in Coop, è dirigente, direttore delle 
						relazioni esterne, direttore del personale, 
						vicepresidente. Infine, nel 1999, assume la presidenza 
						della cooperativa che, nel frattempo, ha cambiato più 
						volte nome. Nel 2004 assurge alla 
						presidenza dell'Associazione Nazionale Cooperative 
						Consumatori (ANCC-Coop) ed è qui che lo incontriamo. Non 
						di persona, fortunatamente. Come mai?   Aldo Saldi e 
						Romano Prodi   Questo non è un episodio di 
						bassa cucina come i precedenti. Qui siamo nell'alta 
						finanza, nella politica. Addirittura nei palazzi del 
						potere. La cosa si alza enormemente di livello. Infatti 
						costoro si muovono tanto in alto che, ormai, quando 
						festeggiano un loro anniversario, lo fanno al Quirinale, 
						quasi fossero una istituzione dello Stato. L'ultima 
						volta, il 15 gennaio 2007, Giuliano Poletti, il grande 
						presidente di Legacoop, ha brindato con Giorgio 
						Napolitano (allegati 26 e 27). È così che noi, che eravamo 
						quasi caduti nell'abisso, veniamo catapultati da Soldi 
						lassù, poiché lui riesce a fare di noi, Esselunga, un 
						caso nazionale. Come mai, che cosa era successo? Tenterò 
						di essere sintetico, esemplificativo. Nell'estate del 2003, allarmato 
						da troppi segnali, da fornitori, amici, clienti, volsi 
						uno sguardo indietro e dovetti constatare che l'azienda 
						era nei guai. Col pretesto della Job 
						rotation, una direzione del personale senza 
						scrupoli, d'accordo con una "serpe" - dirigente 
						incaricato della gestione di tutti i prodotti deperibili 
						- alla quale si era dato potere dì vita e di morte, 
						accantonava, spintonava, scacciava persone validissime: 
						vecchi che avevano costruito l'azienda assieme a giovani 
						gagliardi che dal nuovo corso dissentivano. Espressione 
						più usata: «Farlo fuori». Talché ai vertici di settori 
						nevralgici l'azienda si ritrovava con individui di alta 
						incompetenza. Direttori marketing che con l'e-commerce
						riuscivano a perdere 60 miliardi di lire l'anno, 
						incapaci di scendere sul campo dell'operativo e dei 
						costi, erano in auge. E nella ridda di stupide e 
						dozzinali promozioni commerciali arrivarono a mettere, 
						centrale, sulla pagina pubblicitaria per Pasqua, 
						l'immagine di rotoli di carta igienica in offerta 
						speciale. In quell'occasione Marco Testa mi chiamò e mi 
						disse: «Abbiamo passato il segno, roba così non si può 
						più tollerare». Sull'annuncio c'era la firma della sua 
						agenzia, della Armando Testa, i suoi impiegati lo 
						avevano impaginato. Un oscuro - in ogni senso - 
						giornalista pubblicista siciliano, sedicente esperto, 
						consulente in Esselunga a mia insaputa da cinque anni, 
						aveva letteralmente sovvertito la nostra rete di 
						vendita, una nostra specificità: quell'ingranaggio, per 
						così dire, che è la leva prima della nostra 
						performance quotidiana. Non funzionava più niente. In amministrazione, il 
						responsabile aveva sottoscritto contratti "derivativi", 
						in quel linguaggio inglese della finanza che neppure 
						conosceva, che ci costarono anch'essi una sessantina di 
						miliardi di lire. Un famoso ricercatore di 
						mercato, incaricato di fare per noi la solita "ricerca 
						motivazionale", riuscì a "venderci" la tesi - poiché 
						pure lo pagammo - che i clienti, i consumatori, si 
						dividono in due grandi categorie: i "supermarkettisti", 
						che badano alla qualità e trascurano - addirittura non 
						ricordano - i prezzi, e gli "ipermarkettisti", per i 
						quali il prezzo è tutto. Secondo questo "ricercatore", 
						la clientela di Esselunga sarebbe "supermarkettista". È così che trovai un'azienda 
						che non monitorava più la concorrenza; contavano 
						soltanto i prezzi di pochi articoli centrali, che so, la 
						solita Barilla, il resto non aveva importanza. Se ne era 
						fatto un credo, una verità rivelata. Avevamo sugli 
						scaffali l'Argentil a oltre 5 euro, il 30% in più 
						rispetto a rutti i concorrenti, anche i più scassati, 
						che l'avevano a 4. Eravamo diventati l'azienda più cara 
						del Paese, onusta di costi, consulenti, riunioni. Una 
						pacchia per la concorrenza, alla quale avevamo lasciato 
						uno spazio enorme. Liberarsi di questo ciarpame 
						manageriale fu facile. I primi li caricammo, in una 
						bella mattina del gennaio 2004, su delle Mercedes blu, 
						con autista, una per ciascuno. Una cosa dignitosa. Anzi, 
						di riguardo. Gli altri uscirono alla spicciolata e solo 
						dopo, dalla documentazione rimasta, ebbimo la conferma e 
						le prove di chi fossero alcuni di loro. Con uno sforzo 
						enorme ricostruimmo l'azienda. Alcuni quarantenni, 
						trentenni, tornarono. Altri furono promossi. Poi - fu 
						solo fortuna? - nuove validissime figure entrarono a far 
						parte della squadra. Oggi è una squadra eccezionale. Ma nel mio grandissimo dolore, 
						nella fatica immane, nell'estate 2004 fui colpito da una 
						grave malattia, la più grave della mia vita, ed in 
						ottobre, assente da tre mesi, quando ripresi un po' il 
						mio lavoro, ero l'ombra di me stesso. Questa spiacevole digressione è 
						necessaria per capire il fatto. Un'azienda in crisi, un 
						vecchio che deve lasciare, un seguito - si pensa - che 
						non c'è: quale più facile preda? Anche gli "stranieri", 
						visto che già lo fanno costantemente, si interessavano 
						al mercato italiano. Fatto sta che le voci, oggi li 
						chiamano rumours (chissà perché; è come il 
						board, i Consigli di amministrazione non esistono 
						più) ci bersagliavano da ogni parte. Attorno al vecchio 
						animale ferito l'assedio delle iene si fece 
						insopportabile. Con una strumentale "notizia" quotidiana 
						per farci apparire "venduti", data da una stampa 
						irresponsabile. O forse da una stampa manovrata ad arte 
						da chi ne ha il controllo. Condurre l'azienda in tale 
						incertezza divenne molto, molto duro. E doloroso. Anche Coop, allarmata dalle 
						"notizie" di una vendita a stranieri, si agitò. E 
						furono le pubbliche, ripetute dichiarazioni del 
						presidente dell'ANCC, Aldo Soldi, a metterci proprio in 
						piazza. E ad accreditare in alto loco la tesi che 
						il passaggio dell'azienda in mano straniera sarebbe 
						stato una catastrofe per l'agricoltura e per 
						l'alimentare italiano. Qualche esempio:   Aldo Soldi presidente dell'Associazione 
						nazionale cooperative consumatori. «Oltre a noi, credo che debba 
						essere preoccupata la nostra produzione nazionale che è 
						fatta in gran parte di piccole e medie aziende. (...) I 
						gruppi stranieri traggono la loro forza dal fatto di 
						fare accordi su scala mondiale» (Corriere della 
						Sera}. «Ci sentiamo in diritto-dovere 
						di comprare Esselunga. E ci siamo candidati 
						ufficialmente» (Panorama Economy). «Il sistema produttivo 
						italiano, specie quello agroalimentare che è fatto di 
						piccole e medie imprese, rischia di essere tagliato 
						fuori. Non siamo preoccupati della concorrenza ma per le 
						ricadute negative proprio nella produzione» 
						(L'Espresso). «La 
						distribuzione ha un impatto diretto sulle piccole e 
						medie imprese nazionali. Nel senso che un supermercato 
						straniero tenderà a vendere prodotti stranieri» .(Corriere 
						della Sera). «Una possibile vendita di 
						Esselunga a Tesco (...) creerebbe problemi non a Coop 
						ma alla piccola e media distribuzione del Paese» 
						(Corriere della Sera).   Pierluigi Bersani 
						 responsabile economico dei 
						DS: «Io credo che il sistema 
						amministrativo abbia anche delle leve in mano. Così come 
						il governo (...) di sicuro, nessuno entra in un mercato 
						a dispetto della sua classe dirigente, politica, 
						economica» (L'Unità).   Cesare Geronzi presidente di istituti 
						bancari. «Ha mai fatto una visita al 
						bancone di Auchan in Italia? Vada, vada di persona, 
						guardi quanti sono i prodotti francesi esposti e quanti 
						quelli italiani16. Mi dicono che Caprotti 
						voglia vendere, guai a perdere Esselunga, deve rimanere 
						in mani italiane. Mi sono spiegato?» (Panorama 
						Economy).   Paolo De Castro ministro delle Politiche 
						agricole, di provenienza Nomisma: «II rischio è che un 
						supermercato straniero tenda a vendere prodotti 
						stranieri oppure che strangoli i fornitori (cioè le 
						piccole aziende agricole locali)» (Corriere della 
						Sera).   Vincenzo Tassinari presidente di Coop Italia,
						intimidatorio: «Se (...) Esselunga dovesse 
						essere l'ennesima impresa che finisce in mani straniere, 
						allora non mancheremo di far sentire di nuovo la nostra 
						voce (...)» (Consumatori Coop).   Ma chi poteva toccare l'apice? 
						Romano Prodi. Fra un attimo lo vedremo. Va premesso che se da un lato - 
						attaccati in questo (nodo da costoro nonché da 
						giornalisti e sfrontati" finanzieri - ci trovammo soli, 
						chiusi nel nostro angolo, dall'altro avevamo fatto un 
						gran bel lavoro. E ricostruito l'azienda sia nella sua 
						componente umana sia nei metodi e processi. Ed il 
						progetto ai quale avevo dedicato gli ultimi quindici 
						anni del mio lavoro, il sogno lungamente accarezzato 
						prendeva ormai decisamente corpo con l'apertura di una 
						serie di sfavillanti superstores. Così avevo chiamato - 
						adottando la dizione squisitamente british - 
						questi grandi negozi ad alta specializzazione 
						alimentare, che avrebbero portato Esselunga di nuovo in 
						testa nella competizione della distribuzione al 
						dettaglio italiana. Nel marzo 2005 eravamo pronti, 
						avevamo anche ripulito negozi, assortimenti e fornitori. 
						Demmo battaglia: battaglia commerciale, questa volta. 
						Giù i prezzi! La clientela, tanta era ormai perduta, 
						rispose gradualmente. All'inizio, nel fatturato, rimase 
						soltanto il buco di un ribasso di prezzi senza 
						precedenti. Alcuni fra di noi ebbero, siamo franchi, 
						paura. Io non un giorno. La macchina era pronta, il 
						mercato era lì, in attesa. E con l'inizio dell'autunno 
						cominciò il divertimento. La macchina iniziò a esprimere 
						tutto il rendimento per il quale era stata disegnata, il 
						motore "prese i giri". Esselunga tornava in pista, 
						tornava ad essere «Esselunga prezzi corti» (allegato 
						28).   16 
						Una ricerca condotta nel settembre 2006 da Panel 
						International sui prodotti alimentari francesi di marca 
						ha rilevato che la loro incidenza sugli assortimenti del 
						Largo Consumo Confezionato è pressoché identica nei 
						distributori italiani e francesi presenti in Italia, 
						cioè: Carrefour 2,94%, Auchan 2,93%, Esselunga 2,87%, 
						G.S. 2,84%. (documento a disposizione).   Ed eccoti Romano Prodi, che 
						inopinatamente, il 7 febbraio 2006, durante una puntata 
						di Porta a porta, non richiesto enuncia in 
						campagna elettorale l'obbligo per il governo - quale che 
						fosse, evidentemente - di «mettere insieme» Coop ed 
						Esselunga. In qualche modo: quale, non si sa. Dice così: 
						«Abbiamo le Coop, c'è ancora l'Esselunga». E, 
						all'incalzare di Bruno Vespa, continua: il governo «le 
						può mettere assieme, può aiutarle (...) a fare una 
						politica perché stiano assieme» (allegato 29). A Prodi devo molto. Infatti, in 
						quel periodo per me tristissimo, avevo avuto qualche 
						cedimento. Di fronte all'incalzare di Coop ed al caldo 
						sostegno di miei legali per una vendita a Coop - proprio 
						nell'estate 2005 - qualche interrogativo me lo ero 
						posto. Mi dicevo: Esselunga è così robusta che costoro, 
						se la prendono, a demolirla ci mettono sette o otto 
						anni; o forse, appropriandosi delle sue tecnologie e dei 
						suoi metodi, se non del suo spirito, magari la 
						utilizzano per imparare, per donare. Così, quando "il professore" se 
						ne uscì in Tv nel modo sopra detto, a parte il disgusto 
						per l'indelicatezza, decisi di chiedere a 220 persone 
						dell'azienda, dirigenti e quadri, che cosa pensassero di 
						un'eventuale cessione a Coop. Precisai che rispondere 
						non era obbligatorio. Soltanto sei non risposero. Ma 
						quali risposte ho avuto! E grazie a Prodi ho capito: 
						loro, la mia gente, e non solo quelli che passano tanto 
						del loro tempo nei negozi nostri ed in quelli della 
						concorrenza, mi hanno illuminato. Ed ho poi trascorso 
						molti sabati dell'altra primavera a visitare negozi Coop 
						- non che già non li conoscessi - per cercare di capire 
						meglio ancora, come facevo quarant'anni fa quando andavo 
						a Mosca o a Berlino. Ne sono uscito vaccinato. Vi ho 
						anche portato con me qualche santone dell'italico 
						pensiero, di quelli che tranciano giudizi ma la trincea 
						non l'hanno mai vista. Siamo in Italia, mica in America, 
						sul campo non si scende. Soltanto carta, e tavole 
						rotonde. Esselunga, intanto, era 
						diventata sempre più efficiente, addirittura 
						effervescente. E ho capito Soldi ed i suoi adepti. 
						Poiché è opinabile che Coop possa tener testa ad una 
						concorrenza performante. Dietro tutta la loro 
						propaganda, sta la paura di non essere all'altezza ed il 
						tentativo di trovare delle vie di fuga: farmaci, 
						benzina, telefonini, energia. Hanno ragione. Il meno che 
						si possa dire, in americano, è che sono dei poor 
						operators. Non temiamo querele. Possiamo dimostrarlo 
						numeri alla mano. Sabato 9 giugno 2007 abbiamo 
						partecipato come soci all'assemblea di Unicoop Firenze 
						per l'approvazione del bilancio 2006. Divenire membri di questo club 
						non comporta difficili qualification, come dicono 
						gli inglesi. Né quattro quarti di nobiltà, né grandi 
						gesta in battaglia. Neppure l'eccellenza nelle 
						professioni o nell'impresa. Assolutamente niente, è più 
						o meno come andare a prendere una pizza. Così, abbiamo presenziato. Nel 
						nuovo, grandioso teatro Saschall di Firenze, ci saranno 
						state 1.500 persone, una percentuale minima di 
						partecipanti sul milione di soci di Unicoop Firenze. Un 
						pubblico vetero, vetero in tutto. Di età, di 
						appartenenza, di fede. Antica. Un pubblico di credenti. 
						Pochi i giovani presenti. Nell'applauso dei fedeli 
						abbiamo annotato questi dati:   Soci: 1 milione. Vendite: 2 miliardi. Utile: 25 milioni. "Prestito sociale" l7: 
						2 miliardi e 700 milioni, diciamo 5.200 miliardi di lire 
						di una volta, raccolti dai soci consumatori, come una 
						vera e propria banca. Una cassa enorme, liberamente 
						spendibile. Anche all'occhio del più 
						sprovveduto, appare subito l'esiguità dell'utile. È 
						chiaro che se non ci fossero i proventi finanziari del 
						"prestito sociale", il bilancio andrebbe drammaticamente 
						in perdita. E allora? Se questa stortura tutta 
						italiana, il "prestito sociale" - il Paese di storture 
						vive, d'accordo - venisse meno? Come prima o poi 
						ineluttabilmente accadrà? I miei compagni di avventura 
						non so. Ma io, vecchio di tante esperienze fiorentine, 
						sono stato colto da un dubbio: che Turiddo Campaini sia 
						tornato a passare qualche notte insonne? Come nel bel 
						tempo andato? Mi riferisco alle sue 
						dichiarazioni a La Repubblica dell'autunno scorso
						(allegato 30), 
						quando assicurava che per causa nostra non chiudeva 
						occhio. Perché allora sarebbe chiaro, 
						lampante ciò che inspiegabilmente sta accadendo, dopo 
						tanto tempo, in Esselunga e particolarmente in Toscana, 
						ed il contestuale battage giornalistico. Da almeno tre mesi, dall'aprile 
						2007, siamo in "agitazione". "Agitazione" pretestuosa, 
						soprattutto in Toscana. Però, per il sabato di Pasqua, 7 
						aprile 2007, è stato dichiarato uno sciopero in tutta 
						l'Esselunga.    17 
						Nell'appendice, il "prestito sociale" viene illustrato 
						propriamente. 
						 Diamo fastidio. Ed allora che 
						cosa c'è di più facile e di più naturale, per una 
						"parrocchia" che è parte di un organismo tanto 
						articolato, tanto pervadente, di chiedere una mano 
						all'altra ''parrocchia''? Non è torse della stessa 
						"chiesa"? Con una stampa compiacente che 
						propaganda alla Goebbels l'"agitazione" su 4 colonne, ed 
						annuncia un nuovo sciopero per un sabato a venire, che 
						poi non riuscirà per mancanza di adesioni? Tra decine 
						di articoli, ne presentiamo un paio: Il 
						Tirreno: «Esselunga, sciopero e tensione. 
						Volantinaggio di lavoratori, arrivano i carabinieri» 
						(allegato 31). La Nazione: 
						«Braccio di Ferro all'Esselunga. Proseguono gli 
						scioperi e le assemblee» (allegato 32). Roba di vecchia data, roba da
						Pravda. Certo, come minimo, c'è da restare 
						interdetti. Ancora? Dopo 20, 30 anni? Eppure: Turiddo non dorme, i 
						sindacati si agitano, la stampa ci sguazza (documenti 
						a disposizione).   E noi possiamo solo ringraziare 
						per la sua perspicacia il caro, insostituibile compagno 
						di tante giornate di caccia, di tante albe vissute nei 
						supermercati, l'amico di tanti anni, il prezioso 
						collaboratore, Ferdinando Schiavoni. Lui aveva capito.           RICONOSCIMENTO        Al termine di questa parziale 
						ma documentata esposizione, riteniamo di dover 
						riconoscere che, fra questi "diversi", questi 
						"democratici", abbiamo incontrato, nella pubblica 
						amministrazione, molte persone normali. A Castellanza 
						(Varese), a Castelletto Ticino (Novara), ad Asti, a 
						Viareggio, a Camaiore... Di ciò diamo atto con piacere. 
						Con queste persone corrette, leali, capaci, anche 
						simpatiche, abbiamo lavorato nel reciproco rispetto e 
						nell'interesse delle comunità e dell'impresa. Che, con i 
						suoi 17.000 addetti, 4 milioni di clienti, migliaia di 
						fornitori - e le sue brave tasse - della comunità è 
						parte. A loro ed a tanti altri un 
						grazie sincero.     Tutti noi di 
						Esselunga     Limito, giugno 2007           APPENDICE       LA COOP SEI TU? CONOSCIAMOCI DI 
						PIÙ! di Stefano 
						Filippi     Il diessino Pierluigi Bersani, 
						ministro emiliano che le conosce come nessun altro, ha 
						coniato per le Coop rosse un'espressione botanica. Le ha 
						definite «una varietà biologica fondamentale italiana». 
						Ne ha parlato come fossero una specie in via di 
						estinzione, una rarità da proteggere, giacché questo 
						«presidio costituzionale» in grave pericolo non pensa 
						soltanto al profitto - come l'impresa capitalistica - ma 
						«cresce per istinto in quanto non ha padroni e reinveste 
						gli utili». Il ministro Bersani racconta la favola bella 
						di un sistema disinteressato al business. In realtà, 
						attorno alla Lega delle Cooperative ruotano ogni anno 
						qualcosa come 118 miliardi di euro, pari a 228.000 
						miliardi di vecchie lire. Il presidente nazionale dell'UNCI 
						(Unione Nazionale Cooperative Italiane), Luciano D'Ulizia, 
						che è anche deputato eletto con l'Italia dei Valori di 
						Antonio Di Pietro, lo scorso anno ha presentato 
						un'interrogazione parlamentare sulle misure di sostegno 
						a favore delle imprese cooperative, alla quale durante 
						il question time nell'aula di Montecitorio, 
						trasmesso in diretta televisiva da Raidue, ha risposto 
						il vicepresidente del Consiglio dei ministri, Massimo 
						D'Alema, in persona. In quell'occasione è stato ribadito 
						che quello «imprenditoriale cooperativo è un sistema 
						d'eccellenza, dato confermato anche dai rapporti Censis 
						e Unioncamere, in grado di creare entro il 2006 103.310 
						nuovi posti di lavoro, ossia il 40% della nuova 
						occupazione, con un contributo al PIL nazionale pari a 
						circa 1'8%». In Italia il valore del PIL ai prezzi di 
						mercato lo scorso anno è stato pari a oltre 1.475 
						miliardi di euro correnti. Ed ecco spiegati i 118 
						miliardi di euro di cui sopra. In altre occasioni l'universo 
						della cooperazione s'è vantato d'aver raddoppiato il 
						personale nell'ultimo decennio, arrivando a un milione 
						di dipendenti (oltre 400.000 gli occupati registrati 
						dalle nove associazioni di settore della sola Legacoop). 
						Il personale dell'intero gruppo FIAT in Italia, al 31 
						dicembre 2006, era pari a 75.751 unità. Tredici volte di 
						meno. I settori in cui la Lega delle 
						Cooperative è presente comprendono non soltanto la 
						distribuzione alimentare e le assicurazioni (i più noti 
						al grande pubblico), ma anche le costruzioni edili, 
						l'agroalimentare, i servizi, i macchinari industriali, 
						il turismo, la pesca, ìl mercato abitativo. Da ultimo, 
						persino i telefonini. Nuovi orizzonti, come la 
						distribuzione farmaceutica e la vendita di carburante, 
						sono stati spalancati dai governo di 
						centrosinistra. Le Coop competono con le altre 
						imprese pubbliche e private, grandi e piccole, spinte da 
						una serie impressionante di vantaggi: pagano un terzo 
						delle tasse che è costretta a versare un'impresa 
						normale, non sono scalabili, in alcuni casi non sono 
						neppure tenute a rispettare l'articolo 18 dello Statuto 
						dei lavoratori (quello sui licenziamenti). Le Coop, insomma, sono un 
						colosso ramificato che controlla ampi settori 
						dell'economia italiana grazie alla saldatura con quello 
						che era il Partito Comunista Italiano. Un potente 
						agglomerato politico-affaristico in cui ben poco è 
						rimasto del solidarismo delle origini.   Da Rochdale a 
						Bologna   La Legacoop nacque nel 1886. 
						Allora si chiamava ancora Federazione Nazionale delle 
						Cooperative. In quegli sgoccioli di Ottocento non era 
						certo il potentato che sarebbe diventato nel secolo 
						successivo. L'organizzazione radunava le società 
						mutualistiche italiane sorte sulla scia dei "Probi 
						pionieri di Rochdale", cioè il gruppo di 28 lavoratori 
						inglesi che il 23 ottobre 1844 fondarono la prima 
						cooperativa. Lo scopo - sono parole loro - era quello 
						«di adottare provvedimenti per assicurare il benessere 
						materiale e migliorare le condizioni familiari e sociali 
						dei soci». In Italia i primi a rifarsi all'esperienza 
						nata nel sobborgo di Manchester furono gli operai 
						piemontesi che istituirono il Magazzino di Previdenza di 
						Torino, una cooperativa di consumo sorta nel 1854. Due 
						anni più tardi ad Altare, in provincia di Savona, vide 
						la luce la Artistica Vetraria, una cooperativa di 
						lavoro. Siamo lontanissimi dall'assetto 
						che Legacoop avrebbe assunto nel tempo, cioè di 
						principale cinghia dì trasmissione del PCI: più dei 
						sindacati, dei circoli culturali, dei dopolavori 
						ricreativi. La seconda metà dell'Ottocento è ancora 
						l'epoca delle grandi teorie economiche, delle 
						riflessioni sul rapporto tra capitale e lavoro, e la 
						cooperazione sembra offrire risposte a questioni sia 
						pratiche e immediate, come la disoccupazione e il 
						carovita, sia teoriche. Giuseppe Mazzini, per esempio, 
						vedeva in essa una sintesi ideale per cui capitale e 
						lavoro sarebbero potuti confluire «in un'unica mano». Dal 10 al 13 ottobre 1886, 100 
						delegati in rappresentanza di 248 società e 70.000 soci 
						si riunirono in un congresso a Milano per organizzare il 
						movimento cooperativo. Nacque così la Federazione 
						Nazionale delle Cooperative, che sette anni più tardi si 
						sarebbe trasformata in Lega delle Cooperative. Al suo 
						interno trovavano espressione entrambe le tradizioni 
						mutualistiche, quella socialista e quella cattolica. La 
						divisione fra le due componenti fu sancita nel 1919, al 
						termine della Grande Guerra: i cattolici se ne andarono 
						nella Confederazione delle Cooperative Italiane mentre i 
						laico-socialisti restarono nella Lega, che sarebbe stata 
						sciolta durante il fascismo. Ma il vero boom della 
						cosiddetta economia solidaristica si registrò nel 
						secondo dopoguerra soprattutto grazie all'articolo 45 
						della Costituzione, che «riconosce la funzione sociale 
						della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini 
						di speculazione privata, ne promuove e favorisce 
						l'incremento con i mezzi più idonei». Nell'Italia del 
						miracolo economico, il "partito" che fu di Antonio 
						Granisci e Palmiro Togliatti pigiò sull'acceleratore. 
						Fece delle Coop il trait d'union più affidabile 
						tra le Botteghe Oscure e la società civile, una fonte di 
						consenso, di fiancheggiamento politico e di controllo 
						sociale. Lo si constata bene oggi che il sindacato perde 
						iscritti e consensi e i circoli ricreativi chiudono per 
						mancanza di frequentatori, mentre Legacoop si consolida 
						come un impero economico che possiede assicurazioni e 
						supermercati, costruisce case e autostrade, gestisce 
						telefonini e organizza vacanze, produce cibo ed è 
						presente in Borsa, fa sentire il suo peso sull'azione 
						dei governi ed entra nei principali affari 
						economico-finanziari del Paese.         La terza impresa 
						italiana       Per fatturato, il gruppo 
						Legacoop è la terza impresa italiana, con oltre 50 
						miliardi di euro, dopo ENI e FIAT-IFI. Da lavoro a circa 
						415.000 persone. È la prima associazione italiana, con 
						più di 7.700.000 iscritti (che fungono anche da 
						impiegati e clienti), due milioni più della CGIL e tre 
						più della CISL. Ha una struttura estremamente ramificata 
						perché vende di tutto. È presente in Borsa con alcune 
						società, tra cui spiccano le assicurazioni Unipol, 
						l'immobiliare IGD (controllata da Coop Adriatica e 
						Unicoop Tirreno), la Negri Bossi (che fa capo alla Sacmi 
						di Imola) e Servizi Italia (Coopservice dì Reggio 
						Emilia). Unipol e IGD nel 2006 hanno incrementato la 
						loro capitalizzazione a Piazza Affari per più di un 
						miliardo di euro a testa; IGD ha addirittura fatto 
						registrare l'incremento percentuale più elevato di tutti 
						i titoli del listino (+ 82,06%). Sarebbe però arbitrario dedurne 
						che la Legacoop abbia accettato i rischi connessi al 
						mercato borsistico. Scalare Unipol e IGD è impossibile 
						in virtù di un sistema che viene definito di 
						"autocontrollo circolare". Controllati e controllori 
						sono sempre gli stessi. Nelle grandi vicende economiche 
						italiane la holding presieduta da Giuliano Poletti è 
						sempre presente. I suoi campi d'azione consolidati sono 
						tre: l'agroalimentare, le costruzioni e soprattutto la 
						grande distribuzione organizzata. A Legacoop aderiscono 
						colossi come Granarolo (latticini), che dopo aver 
						acquisito la Centrale del Latte di Milano, gli yogurt 
						Yomo e le mozzarelle Pettinicchio ha puntato anche su 
						Parmalat; giganti della ristorazione collettiva come 
						Camst e Cir Food, leader in Italia, forti in Europa e 
						presenti anche in altri continenti. Nel comparto 
						edilizio, realtà come Consorzio Cooperative Costruzioni 
						di Bologna (CCC), Cooperativa Muratori e Cementisti di 
						Ravenna (CMC), Coopsette sono tra le maggiori imprese 
						nazionali, Delle prime 30 aziende italiane specializzate 
						in grandi opere, 12 sono cooperative e 10 appartengono 
						alla galassia Legacoop. Quanto alla grande 
						distribuzione organizzata (GDO, in gergo tecnico), la 
						sua importanza può essere riassunta in questi dati: 
						essa rappresenta il 42% del fatturato di Legacoop e 
						raggruppa l'82 % delle cooperative iscritte. A ciò si 
						aggiunga che le cooperative di consumo e della grande 
						distribuzione (le "nove sorelle" del marchio Coop e i 
						supermercati Conad) sono in posizione dì assoluta 
						predominanza nelle regioni d'Italia in cui operano. L'ultimo business, come s'è 
						detto, appare quello assai promettente della telefonia 
						mobile. Grazie a un accordo con Telecom Italia, la Coop 
						è diventata il primo operatore virtuale in grado di 
						fornire una propria gamma di servizi, con tariffe 
						agevolate per i soci. Con il marchio Coopvoce, nei 
						supermercati della catena si acquistano e ricaricano 
						schede di telefonini con prefissi dedicati, si ottiene 
						assistenza e si fa concorrenza agli altri operatori 
						mobili. La crescita delle "nove 
						sorelle" è strettamente connessa agli uomini che le 
						hanno pilotate. In particolare a quattro personaggi, 
						quattro manager piazzati nei posti chiave nelle zone più 
						importanti: Pierluigi Stefanini (Coop Adriatica) e Mario 
						Zucchelli (Coop Estense) in Emilia, Turiddo Campaini (Unicoop 
						Firenze) in Toscana e Bruno Cordazzo (Coop Liguria) in 
						Liguria. Ognuno di loro è un pezzo di storia di Legacoop.   Zucchelli, dagli 
						Appennini alle Murge   Mario Zucchelli, nato il 23 
						gennaio 1946 a Castelfranco Emilia (Modena), laurea in 
						economia e commercio conseguita sotto la Ghirlandina con 
						tesi sulla cooperazione di consumo nel Modenese, entrò 
						nelle Coop a 28 anni. A 38 era già presidente di Coop 
						Modena. Con l'assorbimento di Coop Ferrara, diede vita a 
						Coop Estense. Ne divenne presidente il 1° aprile 1989, 
						sei mesi prima che cadesse il Muro dì Berlino, e lo è 
						tuttora. Gli piacciono il teatro, la pallavolo, la pesca 
						sportiva. Fu lui nel 1996 a volere 
						l'espansione di Coop Estense in Puglia, partendo 
						dall'acquisizione di negozi Pam e Coin: in 12 mesi aveva 
						già raccolto 24.000 soci, saliti a 219.000 nel 2006. 
						Numero elevatissimo, se confrontato con quello dei soci 
						nelle province "storiche": 100.000 a Ferrara e 230.000 a 
						Modena. Ancora Zucchelli, assieme a Stefanini, ha 
						lanciato il primo fondo immobiliare italiano 
						specializzato nella grande distribuzione, il fondo 
						chiuso Estense grande distribuzione, che investe in 
						immobili commerciali (iper e supermercati). 
						«Un'operazione innovativa che servirà per finanziare lo 
						sviluppo di Coop Estense», spiegò a suo tempo. Zucchelli è stato il più pronto 
						anche a sfruttare la possibilità (ipotizzata e messa a 
						punto proprio dalle Coop, quindi pedissequamente 
						tradotta in legge dal secondo governo Prodi con i 
						decreti Bersani) di vendere farmaci da banco nei 
						supermercati. Non a caso i primi negozi Coop in grado di 
						commercializzare medicine sono stati quelli di Carpi, 
						Ferrara e Bari, tutti e tre appartenenti a Coop Estense. 
						La quale adesso occupa il terzo posto nella top ten 
						delle cooperative italiane (fatturato di 1.281 milioni 
						di euro nel 2006 con 48 punti vendita), dietro a Unicoop 
						Firenze e Coop Adriatica, e il secondo tra tutte le 
						aziende della provincia di Modena, preceduta soltanto 
						dalla Ferrari di Maranello. Nel 1997 il curriculum di 
						Zucchelli fu macchiato da una multa inflittagli 
						dall'allora ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi. 
						Zucchelli sedeva allora nel consiglio di 
						amministrazione della BANEC (Banca dell'Economia 
						Cooperativa, in seguito trasformata in Unipol Banca), 
						punita per «carenze nell'attività di controllo da parte 
						del collegio sindacale, degli amministratori e del 
						direttore» accertate da un'ispezione della Banca 
						d'Italia. Le multe colpirono Consiglio 
						d'amministrazione, direttore e sindaci. Di BANEC, Zucchelli era stato anche presidente dopo 
						l'estromissione nel 1992 dei vertici, Pietro Verzelletti e Gilberto Sbrighi, allontanati per 
						operazioni in valuta che con la svalutazione della lira 
						si tradussero in minusvalenze stimate tra i 15 e i 20 
						miliardi di lire. Il numero uno di Coop Estense prese le 
						redini di BANEC in quanto vicepresidente in carica, 
						consigliere di amministrazione di Fincooper (il 
						consorzio finanziario della Legacoop) e uomo di assoluta 
						fiducia degli uomini della finanza rossa. Fiducia attestata dalla ricca 
						collezione di board cooperativi che Zucchelli può 
						sfoggiare: presidente di Finpar Spa (finanziaria del 
						gruppo Coop Estense), vicepresidente di Sofìnco Spa e 
						Finube Spa (altre finanziarie controllate da Coop 
						Estense che gestiscono una serie di partecipazioni), 
						consigliere di Unipol Merchant Spa, Finec Holding Spa, 
						Holmo Spa e Finsoe Spa fino agli inizi del gennaio 2006, 
						nel pieno dello scandalo Unipol. Poi Zucchelli è 
						diventato presidente di Holmo, la holding finanziaria 
						(posseduta al 100% da 43 cooperative) che, tramite 
						Finsoe, controlla la compagnia assicurativa rossa.   Campaini, 
						l'inossidabile Cuccia toscano   L'hanno battezzato il Cuccia 
						rosso che viaggia in seconda classe. L'hanno dipinto 
						come il manager che difende l'autonomia delle Coop 
						dall'invadenza del "partito" (PCI prima, PDS poi, DS 
						adesso, PD presto), che da Firenze incrocia le lame con 
						le Coop di Bologna, che ha rifiutato gli inviti a 
						entrare in politica per restare vicino alle sue 
						creature, che tesse rapporti estesi fino alle 
						parrocchie e all'arcivescovado di Firenze. Basso profilo e poche parole, 
						Turiddo Campaini, classe 1940, fiorentino di Montelupo 
						trapiantato a Empoli, è diventato un personaggio famoso 
						soltanto a 65 anni, agli inizi del gennaio divergenze 
						con Stefanini, e da allora è tornato nell'ombra. Campaini ha messo piede nelle 
						Coop nel 1963, a 23 anni. Lavorava in una vetreria di 
						Empoli e fu assunto alla Cooperativa del Popolo di 
						Empoli. In breve divenne direttore amministrativo, 
						introdusse il controllo di gestione, ancora sconosciuto, 
						e allargò la rete di vendita. Fu nominato presidente nel 
						1971; due anni dopo guidò la fusione con la Toscocoop, 
						fece nascere Unicoop Firenze e vi si insediò al vertice. 
						Era il 1973: alla Casa Bianca risiedeva Richard Nixon, 
						al Cremlino Leonid Brezhnev, il Palazzo dell'Assemblea 
						del Popolo di Pechino era ancora presidiato da Mao 
						Tse-tung, il generale Augusto Pinochet assaltava la 
						Moneda, a Palazzo Chigi il Rumor IV dava il cambio 
						all'Andreotti II, sul soglio di San Pietro sedeva Paolo 
						VI. Un altro mondo. Poche poltrone non hanno mai mutato 
						occupante da allora: tra queste, lo scranne del 
						presidente di Unicoop Firenze. Che sta ancora seduto lì. Quella di Campami è la prima 
						Coop di consumo d'Italia: un fatturato di quasi due 
						miliardi di euro nel 2006, altri 2,7 miliardi di euro 
						raggranellati tramite il prestito sociale, un centinaio 
						di punti vendita, quasi 7.500 dipendenti e un numero dì 
						soci vicino al milione tra i 2.600.000 abitanti delle 
						sette province toscane dove è presente. Dunque, in 
						queste aree il 70% delle famiglie e il 38% dei residenti 
						è socio di Campami. Il quale, dopo avere consolidato la 
						sua azienda nel settore distributivo alimentare, ne ha 
						diversificato le attività entrando in due fiorenti 
						settori: il bricolage (con l'acquisizione, avvenuta nel 
						2002 per 80 miliardi di lire, del 70% di OBI Italia, una 
						delle grandi catene europee di magazzini per il fai da 
						te) e l'elettronica di consumo. Al 50% con Consum.it, la 
						società della banca Monte dei Paschi di Siena che opera 
						nel credito al consumo, la società di Campami ha 
						costituito nel 2005 Integra Spa per lanciare nuovi 
						strumenti finanziari destinati ai Soci, in particolare 
						carte di pagamento. Si favoleggia dell'indipendenza 
						di Campami dal PCI-PDS-DS. I suoi agiografi, 
						dimenticando che fu consigliere comunale PCI a Empoli 
						tra il 1980 e l'85, alimentano il mito del cooperatore 
						tutto d'un pezzo raccontando la polemica che a metà 
						degli anni '90 lo contrappose alla Regione Toscana, 
						amministrazione rossa accusata di bloccare il piano 
						della grande distribuzione. Il problema era che il 
						presidente Unicoop cercava sbocchi di investimento per 
						una grande quantità di denaro raccolto tramite il 
						prestito sociale remunerato a tassi elevatissimi: una 
						riserva, già a quell'epoca, di circa 1.500 miliardi di 
						lire che poteva dare luogo a un piano di investimenti 
						triennale di 500 miliardi l'anno. Somme iperboliche 
						ottenute senza mettere piede in banca. Egli chiama questa raccolta 
						"finanza popolare". Gli piace tanto. Quando ascese ai 
						vertici dell'Unipol squassata dagli intrighi dei suoi 
						grandi avversati Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti 
						(era il 9 gennaio 2006), il numero uno delle Coop 
						toscane tuonò: "Basta parlare di finanza rossa, noi 
						siamo una finanza al servizio della gente senza una 
						caratterizzazione precisa. Sarebbe ora di finirla di 
						attribuire un colore politico al movimento cooperativo 
						e alla sua parte finanziaria, che già oggi è riuscito a 
						debellare il virus che lo aveva colpito e ora sta 
						cercando un vaccino che impedisca a virus dello stesso 
						ceppo di attaccarlo in futuro. La sintesi tra finanza 
						rossa e cooperative rosse dice tanto, ma sono 
						definizioni sbagliate, o quantomeno non corrispondenti 
						alla realtà. La finanza non è una cosa vicina a una 
						parte politica, ma agli interessi generali, agli 
						interessi di persone nostre associate".  Pochi giorni dopo, Campaini 
						giunse a ipotizzare una fusione tra Coop rosse e 
						bianche. Cioè, stanti i rapporti di forza, 
						l'assorbimento delle seconde nelle prime. «I tempi sono 
						maturi, il Muro di Berlino è crollato da un pezzo», 
						argomentò. «È venuto il momento di una fusione tra Legacoop e Confcooperative. La nostra gente la vuole e 
						noi ci dobbiamo arrivare al più presto; la distinzione 
						tra bianchi e rossi non ha più alcun senso, i nostri 
						soci non la sentono più da anni e sanno che i vecchi 
						steccati riguardano ideologìe ormai tramontate, a 
						cominciare dal comunismo». Ma Campaini ha retto pochi mesi 
						sul ponte di comando di Finsoe: a fine agosto del 2006 
						ha annunciato le dimissioni. Ufficialmente l'addio 
						sarebbe legato alla conclusione del mandato di 
						"traghettatore" in Unipol che Legacoop gli aveva 
						assegnato, in diretta contrapposizione con la gestione 
						Consorte-Sacchetti. Campaini era sempre stato contrario 
						(e non l'aveva mai nascosto) alla scalata 
						dell'assicurazione alla BNL. «Io non ci sto, devi 
						rassegnarti all'idea che non sono scalabile»; con queste 
						parole, riferiscono i giornali, Campaini stoppò 
						l'insistenza con cui Consorte voleva trainarlo nella 
						conquista della banca romana. E dopo il passo indietro, 
						il manager toscano partì alla controffensiva acquistando 
						pacchetti di azioni del Montepaschi, banca di cui era 
						già consigliere, rafforzando la partecipazione di 
						Unicoop Firenze fino a raggiungere il 2,99%. In realtà, dietro il suo "gran 
						rifiuto" non c'è la "viltade" che secondo Dante 
						attanagliò Celestino V ma, più semplicemente, 
						l'inversione dei rapporti di forza tra le Coop dell'asse 
						appenninico tosco-emiliano. Al momento di insediare i 
						nuovi vertici del gruppo Unipol dopo l'insuccesso 
						dell'operazione BNL e l'apertura delle inchieste 
						giudiziarie che avevano travolto Consorte, a Campami (Unicoop 
						Toscana) era toccata Finsoe, cioè la holding 
						controllante di cui Montepaschi possiede il 27%, mentre 
						a Stefanini (Coop Adriatìca) la controllata. Questa 
						scelta fu interpretata come una vittoria dei toscani 
						sugli emiliani nella lotta intestina a Legacoop. Nei pochi mesi di coabitazione, 
						tuttavia, Campami ha perso due battaglie: è fallito il 
						tentativo di integrare Unipol e Montepaschi che doveva 
						essere realizzato «in tempi brevi, entro l'estate»; ma 
						soprattutto è arrivato, mal digerito, il nuovo 
						amministratore delegato di Unipol, Carlo Salvatori, 
						scelto in totale autonomia dai bolognesi. E da Holmo, la 
						capofila guidata da Zucchetti, è arrivato su Campami il 
						colpo di grazia, cioè l'ipotesi di ridisegnare la catena 
						di controllo accorpando Finsoe nella holding madre. 
						Prima di restare stritolato nella morsa degli emiliani, 
						Campami ha preso cappello ed è tornato a Firenze. Le Coop sono una fede, per 
						Campami. Per lui devono sì «guardare al mercato», ma 
						«non solo con una logica di profitto. Gli strumenti del 
						movimento cooperativo vanno considerati come tali, e non 
						semplicemente come strumenti di accumulazione». A 
						questa specie di missione il presidente di Unicoop 
						Firenze assolve con un rigore ascetico di stampo 
						khomeinista, in modo da non alimentare le invidie che lo 
						smisurato potere concentrato nelle sue mani 
						inevitabilmente gli attira. Ogni mattina attorno alle 7 
						esce dalla casa di Empoli dove vive con la moglie e la 
						madre, si mette alla guida di una Audi 4 oppure sale su 
						una carrozza di seconda classe del treno 
						regionale, e raggiunge l'ufficio nel centro di Firenze. 
						Un rituale che Campami ha assorbito dal suo maestro, 
						Duilio Susini, figura storica della cooperazione 
						toscana, l'uomo che negli anni '60 fece infuriare il PCI 
						con l'idea di unire le cooperative del popolo e aprire i 
						supermercati. Susini era iscritto al 
						"partito" comunista, fu consigliere comunale e 
						assessore a Empoli per vari mandati. Come lui, anche 
						Campami è stato consigliere comunale del PCI. Ama il 
						calcio e la musica, non ha telefonino aziendale, 
						incassa circa 120.000 euro lordi di stipendio annuo, 
						mangia in mensa. L'unica imperfezione è nel nome: il 
						papa, che amava i melodrammi del livornese Pietro 
						Mascagni, voleva chiamarlo Turiddu come il giovane 
						contadino della Cavalleria rusticana, ma 
						l'impiegato dell'anagrafe dì Montelupo non era un 
						melomane e sbagliò l'ultima vocale. E fu per sempre 
						Turiddo. Gli chiesero di diventare 
						azionista dell'Unità, di accettare un seggio 
						blindato in Parlamento, di candidarsi a sindaco di 
						Firenze. Ha sempre rifiutato. Non sarebbe stato né il 
						primo né l'ultimo manager Coop a infilarsi nelle porte 
						girevoli che mettono in comunicazione "partito", società 
						mutualistiche e cariche politiche o amministrative. Non 
						voleva diventare un nuovo Lanfranco Turci, che fu 
						presidente della Giunta regionale dell'Emilia Romagna, 
						presidente nazionale di Legacoop e senatore ulivista. 
						Campami è rimasto avvitato sulla sua poltrona. Forse per 
						approfondire i] solco con i cooperatori emiliani. O 
						forse per non abbandonare la sua coperta dì Linus. La 
						sua Coop.   Cordazzo, 
						bussare e non entrare   Bussare prima di entrare è una 
						elementare regola di buona educazione, che però non si 
						applica agli affari. Bruno Cordazzo, presidente di Coop 
						Liguria, non la pensa così. 1 concorrenti devono 
						«chiedere permesso» a lui se vogliono mettere piede nel 
						suo regno commerciale. I cui confini egli identifica con 
						l'orografìa della Liguria. In pratica s'è annesso la 
						carta geografica. Cordazzo è il manager che ha 
						finalmente disvelato il segreto del successo delle Coop: 
						esse prevalgono, ha spiegato al Secolo XIX di 
						Genova, perché «curano i rapporti con le istituzioni, 
						non certo per favoritismi», e perché «costruiscono nel 
						tempo» una trama di relazioni da far fruttare al momento 
						giusto. Gli altri operatori dovrebbero imparare da loro 
						a «non fare la voce grossa» con le amministrazioni 
						locali. Dunque «rivendicare con garbo i propri diritti, 
						se si pensa di averne». Cordazzo è ligure di Chiavar!, 
						dove è nato il 24 giugno 1943. Tutta la sua carriera si 
						è sviluppata nella cooperazione, inizialmente all'ombra 
						di Remo Checconi, ora presidente onorario. Il suo nome è 
						legato all'imponente sviluppo di Coop Liguria, che sotto 
						la sua guida è diventata un colosso: 40 punti vendita 
						distribuiti anche nel confinante Basso Piemonte, un giro 
						d'affari di poco inferiore a 700 milioni di euro, 3.000 
						dipendenti e 450.000 soci: numero altissimo, il 28% 
						degli abitanti della regione, che sono circa 1.600.000. 
						Più di un cittadino ligure su quattro - e un adulto su 
						tre - è socio di Cordazzo: un quasi monopolio. Gli piacciono le iniziative 
						culturali. Fu tra i maggiori sostenitori delle 
						manifestazioni per "Genova 2004 capitale europea della 
						cultura"; è tra i promotori del premio Colombe d'oro per 
						la pace, i cui riconoscimenti vengono consegnati dai 
						Presidente della Repubblica; sempre nel 2004 ha 
						scritturato lo scenografo e costumista Lele Luttazzi 
						per ideare una campagna pubblicitaria intitolata 
						Pulcinella e il Mediterraneo, naturalmente 
						presentata alla festa dell'Unità e dedicata al cibo come 
						veicolo di cultura tra i popoli. Ma la vera passione del 
						presidente di Coop Liguria è la finanza. È consigliere 
						di Ligurpart Spa, società finanziaria controllata da 
						Coop Liguria per conto della quale assume e gestisce 
						partecipazioni azionarie, e di Coopfond Spa, la società 
						che gestisce il fondo mutualistico per la promozione 
						cooperativa alimentato dal 3% degli utili annuali delle 
						cooperative aderenti a Legacoop, che ne è l'unico 
						azionista. Non gli è sfuggita neppure l'importanza delle 
						alleanze bancarie. È stato lui a portare Coop Liguria 
						(assieme a Coopsette) nel salotto buono degli azionisti 
						di Banca Carige, di cui detiene poco meno del 2%. Come 
						rappresentante di questa quota, nel Consiglio di 
						amministrazione dell'istituto e nel comitato esecutivo 
						siede Remo Checconi, presidente onorario di Coop 
						Liguria. Sempre Cordazzo ha orchestrato l'ingresso della 
						sua Coop nell'azionariato di BNL con un 3,99%. Questa percentuale ebbe il suo 
						peso ai tempi della scalata Unipol. Bruno Cordazzo, 
						infatti, è consigliere di amministrazione (indipendente 
						e non esecutivo) del gruppo assicurativo a lungo guidato 
						da Consorte. Proprio quest'ultimo, a metà 2005, chiese a 
						quattro Coop di spalleggiarlo nella scalata a BNL: 
						Adriatica (Stefanini), Estense (Zucchelli), la 
						piemontese Novacoop e infine la stessa Liguria, l'unica 
						che fosse azionista stabile di una banca, appunto 
						Carige. «Coop che fanno capo a Stefanini», disse nei 
						colloqui intercettati. Nei drammatici mesi che 
						seguirono, Cordazzo prima fece quadrato attorno all'ex 
						numero uno della compagnia, esprimendo «fiducia nel 
						management», invocando «coesione» e difendendo la 
						«legittimità» dell'operazione; poi però fece dietrofront 
						affermando che era stato «violato il codice etico». Qualcuno aveva anche sospettato 
						che fossero state le Coop a indurre Carige a entrare nel 
						patto di sindacato di cui facevano parte Unipol, Hopa e 
						le altre Coop per acquisire il controllo di BNL; del 
						resto l'istituto genovese era già azionista della banca 
						romana con l'l,99%. Cordazzo smenti: «Cosa volete che 
						prospettiamo noi, sono scelte autonome di Carige». Non si è però tirato indietro 
						alla vigilia delle elezioni politiche 2006, quando ha 
						spedito un appello alle migliaia di suoi dipendenti. 
						L'invito contenuto nella circolare datata 4 aprile, sia 
						chiaro, era «innanzitutto quello di votare». Perché 
						l'astensione è «una rinuncia a giudicare chi ha 
						governato e a scegliere, tra i programmi presentati 
						dalle due coalizioni, quello che può meglio dare una 
						risposta alla crisi del Paese». Cordazzo, non c'è bisogno di 
						sottolinearlo, sponsorizzava apertamente il 
						centrosinistra. Silvio Berlusconi lasciava infatti un 
						Paese «in crisi profonda, economica, sociale e 
						valoriale; crisi che ha determinato grandi insicurezze e 
						una precaria visione del futuro per la stragrande 
						maggioranza delle famiglie». In più, il premier uscente 
						di centrodestra aveva lanciato «attacchi strumentali e 
						calunniosi alla cooperazione», era criticabile «per i 
						deludenti risultati conseguiti e per l'azione volta a 
						dividere il Paese». Non c'era scritto «Votate Prodi»,ma 
						si leggeva tra le righe. Cosa non si deve fare per 
						«curare i rapporti con le istituzioni», soprattutto 
						quelle amiche.   Stefanini, 
						l'operaio diventato padrone   Pierluigi Stefanini è la vera 
						incarnazione del sistema Coop. Non è un Campaini, 
						padre-padrone che rifiuta agi e incarichi per far 
						diventare Unicoop Firenze la prima Coop alimentare e 
						distributiva d'Italia. Non è un Cordazzo, che ammonisce 
						i concorrenti a «chiedere permesso» e «curare i rapporti 
						con le istituzioni» se vogliono conquistare spazi. Stefanini e un emiliano, 
						bolognese di Sant'Agata (dov'è nato nel 1953) e ha casa 
						sotto le Due Torri, nel cuore del potere rosso. È un 
						uomo di "partito" tutto d'un pezzo, ufficiale di 
						collegamento tra la Quercia e il braccio 
						economico-finanzìario. Prese la tessera del PCI a 19 
						anni e ora ha in tasca quella dei DS. È una garanzia, un 
						abile navigatore cui appoggiarsi nei momenti più 
						difficili come ha fatto l'Unipol nel dopo Consorte. Quarto di cinque fratelli, dopo 
						la licenza media Stefanini cominciò a lavorare presso un 
						piccolo artigiano metalmeccanico, approdando quindi 
						sedicenne come apprendista operaio alla GD della 
						famiglia Seragnoli, società leader mondiale nelle 
						macchine per produrre e confezionare sigarette, una 
						potenza nella realtà economica bolognese che ha generato 
						la cosiddetta Packaging Valley. Stefanini aderì alla 
						sezione comunista della GD (150 iscritti su 700 
						lavoratori) battezzata "Vietnam libero", e ne divenne 
						segretario. Era l'inizio dell'arrampicata. Alla fine degli anni 70 lasciò 
						i Seragnoli, assunto Come funzionario della federazione 
						comunista cittadina allora guidata da Renzo Imbeni. 
						Reduce da due anni di studio alla scuola di "partito" - 
						non le Frattocchie romane, bensì la più ruspante scuola 
						di Albinea, poco fuori Reggio Emilia - si occupava dei 
						settore lavoro, delle fabbriche e dell'organizzazione. 
						Nel 1988 divenne segretario cittadino. Appena due anni 
						dopo spiccò il salto verso le Coop. Stefanini è uno che ha sempre 
						tessuto rapporti estesi e ramificati nelle centrali del 
						potere bolognese. È consigliere di amministrazione della 
						Fondazione Cassa di Risparmio, della Società Aeroporti 
						Bologna (SAB), della Camera di Commercio. È stato 
						consigliere dell'Ente Fiera, vicepresidente della Banca 
						di Bologna (banca dì credito cooperativo), membro del 
						Comitato scientifico di Nomisma, il "pensatoio" di 
						Romano Prodi. Sua moglie, Siriana Suprani, coordinatrice 
						dell'Istituto Gramsci in Emilia Romagna, è consigliere 
						comunale DS dall'autunno 2000. In questi snodi Stefanini 
						è stato immesso per avere presieduto dal 1990 al 1998 la 
						Lega delle Cooperative di Bologna ed essere poi passato 
						alla testa dì Coop Adriatica, prima Coop emiliana e 
						seconda in Italia. Ora Stefanini ha lasciato il 
						timone di Adriatica per dedicarsi interamente a Unipol 
						Assicurazioni, dove si è insediato nel gennaio 2006 al 
						posto di Giovanni Consorte. Per la doppia poltrona di 
						presidente e amministratore delegato di via Stalingrado, 
						è stato costretto a lasciare la presidenza di Holmo (ora 
						ne è semplice consigliere), che occupava come azionista 
						principale: Coop Adriatica controlla infatti il secondo 
						pacchetto azionario mentre un ulteriore 20% circa fa 
						capo a una finanziaria di nome Ariete, di cui Stefanini 
						è consigliere dopo esserne stato presidente. Altre poltrone: consigliere di 
						amministrazione di Unipol Banca, di Finec Merchant Spa 
						(la finanziaria d'affari della galassia Unipol-Legacoop), 
						del Monte dei Paschi di Siena, della Banca Nazionale del 
						Lavoro. Ricapitolando: è tra Ì maggiori azionisti di 
						Holmo, che attraverso Finsoe controlla Unipol, di cui 
						lui è presidente. Controllore e controllato. Ma il suo 
						successore in Coop Adriatica, l'ex vicepresidente 
						Gilberto Coffari, ha negato con decisione che esista un 
						conflitto di interessi. Fatto sta che nei sei mesi 
						seguenti all'ascesa in Unipol, Stefanini si è liberato 
						di qualche carica. Prima ha scelto Carlo Salvatori come 
						amministratore delegato della compagnia assicurativa, 
						inducendo l'altro boss della cooperazione rossa, 
						Campainì, ad abbandonare; poi ha annunciato la rinuncia 
						al vertice di Coop Adriatica. Gli piace passare le vacanze in 
						Sardegna, dove ha comprato con il cognato una casetta 
						nell'entroterra di Alghero. Prima si accontentava di un 
						agriturismo. I suoi amici lo definiscono «il volto 
						pulito che viene dalla gavetta». Superata nel fatturato 
						da Unicoop Firenze, Coop Adriatica si presenta come «la 
						più importante catena distributiva italiana e, insieme, 
						la più grande organizzazione di consumatori»: conta più 
						di 9,000 lavoratori del gruppo, 934.000 soci, 1,65 
						miliardi di fatturato netto nel 2006; ha una rete di 139 
						fra iper e superrnercati sparsi in Emilia Romagna, 
						Veneto, Marche e Abruzzo. Ha poi a disposizione risorse 
						finanziarie per 1,75 miliardi attraverso il prestito 
						sociale. Un regno tentacolare che 
						comprende librerie, agenzie di viaggi, associazioni 
						culturali, commercio elettronico, iniziative 
						assistenziali. Ha promosso la costituzione della 
						"supercentrale" di acquisti comuni con Conad avviata a 
						fine 1999; e quando un parlamentare del CCD evocò 
						l'Antitrust contro l'accordo, Stefanini replicò: «Si 
						tratta di una cosa che fa sorridere». Fu lui a lanciare 
						il portale internet unico delle Coop e i cosiddetti 
						"mercatini telematici" chiamati punti "Coop di più" 
						attrezzati con computer e personale tecnico, dove 
						navigare in Internet e acquistare prodotti turistici, 
						assicurativi e finanziari. Ha acquistato il tour operator 
						Robintur, 46 agenzie viaggi della catena, altrettante in 
						franchising (fatturato annuo sui 150 milioni di euro). È sempre su impulso di 
						Stefanini che partì la campagna per consentire ai 
						supermercati di vendere far-maci da banco: battaglia 
						vittoriosa grazie al decreto Bersani-Visco varato dal 
						governo di centrosinistra. La Coop di Stefanini era già 
						entrata nel commercio dei medicinali nel 2004, anno in 
						cui aveva costituito Pharmacoop Adriatica per 
						partecipare (vittoriosamente) alla gara d'appalto per 
						gestire le farmacie comunali di Padova. Quest'ultima 
						società appartiene alla holding Pharmacoop (costituita 
						da Coop Adriatica, Coop Estense, Coop Consumatori 
						Nordest, Coop Lombardia) che gestisce una trentina di 
						farmacie in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. E punta 
						non soltanto a commercializzare medicinali a marchio 
						Coop, ma soprattutto ad affiancare (e forse a 
						soppiantare) la catena distributiva delle farmacie 
						tradizionali: va in questo senso il tentativo di 
						inserire anche le medicine di fascia C tra le specialità 
						in vendita negli ipermercati. Stefanini non si è fatto 
						mancare nemmeno un colossale spin-off immobiliare 
						con conseguente quotazione in Borsa della IGD Spa 
						(Immobiliare grande distribuzione), controllata assieme 
						a Unicoop Tirreno e presieduta dal delfino Coffari. A 
						IGD sono stati conferiti nove centri commerciali e 
						ipermercati per un valore di circa 600 miliardi: 
						l'operazione ha generato una plusvalenza straordinaria 
						di 105 miliardi di lire. Da un'idea di Stefanini, 
						attuata da Romano Montroni, per 40 anni direttore delle 
						Librerie Feltrinelli, sono nate le Librerie Coop: tre 
						punti vendita già inaugurati (quello di Bologna da Guido 
						Rossi, forse perché il grande avvocato d'affari, che fu 
						eletto senatore indipendente nelle liste del PCI, a 
						Milano abita in un appartamento soprastante a quello di 
						Umberto Eco). L'obiettivo è di aprirne altre 15 in tre 
						anni. Sempre sul fronte 
						economico-culturale, Stefanini non ha fatto mancare 
						contributi alla Fondazione Gorbaciov e ha lanciato la 
						maratona di lettura "Ad alta voce" nelle strade di 
						Bologna. Manca soltanto Tele Coop. Ma quando il 
						presidente di Mediaset, Fedele Gonfalonieri, l'ha fatto 
						notare con una certa dose di ironia, Stefanini ha 
						ribattuto prendendosi molto sul serio: «Magari ci fosse 
						la Coop Television, sarebbe un fattore di pluralismo. 
						Più operatori nel mercato, maggiore pluralismo, maggiori 
						benefici per tutti i cittadini, per l'economia e 
						naturalmente anche per le imprese cooperative. È un 
						fatto che la destra non riesce a capire». Ma che sfugge 
						anche ai vertici delle Coop, considerata la tenacia con 
						cui difendono i propri monopoli. Il nome di Stefanini affiora 
						varie volte nelle telefonate di Giovanni Consorte 
						registrate nel corso delle indagini, e anche in 
						conversazioni con Massimo D'Alema. Nel luglio 2005 il 
						numero uno di Unipol incitava l'uomo che sei mesi dopo 
						avrebbe preso il suo posto a convincere i responsabili 
						delle Coop «a mettersi in fila» per tirare fuori i soldi 
						necessari all'operazione BNL, della quale Stefanini (a 
						differenza di Campami) è stato sempre fautore. Un'altra 
						volta Consorte si sfogò con lui contro Ricucci e gli 
						immobiliaristi. Stefanini ha sempre difeso 
						Consorte: lo ha fatto prima dello scandalo, appoggiando 
						la scalata alla banca romana, e anche dopo, riparandolo 
						per quanto possibile dagli attacchi concentrici. 
						Elementi in comune tra le OPA su BNL e su Antonveneta? 
						«Nessuno, soltanto una coincidenza temporale». Rapporti 
						tra Consorte e "furbetti del quartierino"? «Con Stefano 
						Ricucci non risultano, con Emilio Gnutti c'è una 
						collaborazione in corso da anni». Le chiacchierate 
						compromettenti con Passino? «Del tutto legittimo che il 
						segretario DS telefoni a Consorte così come ha fatto e 
						farà con altri imprenditori». La polemica sulle 
						intercettazioni? «Stucchevole e fuori misura». Giudizio 
						su Consorte? «Ha messo nell'impresa una passione e una 
						professionalità molto elevate». Ma Campami lo definisce 
						un "virus pericoloso"... «Mi sembra un'affermazione 
						secca e francamente non accettabile, non giusta, anche 
						se quanto abbiamo appreso ci ha addolorato e colpito». Stefanini ha sempre difeso la 
						scalata di Unipol alla BNL, spiegandone il fallimento 
						con i «pregiudizi verso le Coop». Curioso e singolare 
						che le Coop, monopoliste del mercato della grande 
						distribuzione in larghe Zone d'Italia, si lamentino 
						dell'ostilità del sistema contro di loro, Queste sono le 
						parole di Stefanini: «Che ci sia in Italia una 
						difficoltà di spazio perché si affermino nuovi soggetti 
						è un dato reale. Il nostro è un mercato che fa fatica ad 
						aiutare quelli che cercano di emergere, a realizzare 
						nuovi percorsi di crescita. C'è una forte chiusura, c'è 
						un circuito chiuso e questo ha pesato sull'esito 
						negativo dell'OPA». Ancora: «Si è manifestata 
						inoltre un'ostilità forte, di tipo politico ed 
						economico, sia nei confronti di Unipol che verso il 
						mondo cooperativo. Questo ha rappresentato una novità 
						importante in questi anni, indipendentemente dal fatto 
						che possiamo apparire simpatici o meno, oppure 
						politicamente affini a questo o quel "partito". Chi non 
						lo vuoi vedere è perché ha dei pregiudizi». Pregiudizi, 
						ostilità, difficoltà di spazio verso nuovi soggetti. 
						Parole sante, ma l'oggetto di tanta chiusura non sono 
						certo le Coop rosse.     La lunga 
						campagna acquisti       Negli ultimi anni la Legacoop 
						ha messo a segno grandi acquisizioni. L'Unipol ha 
						rilevato le assicurazioni Meie dal gruppo Telecom e le 
						attività italiane del gruppo Winterthur, mentre ha 
						fallito di poco l'acquisto della Toro. Le Coop di 
						costruzioni CCC e CMC sono entrate nella cordata per la 
						realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina e per 
						la costruzione dell'Alta Velocità su rotaia tra Italia e 
						Francia, hanno avuto in portafoglio importanti commesse 
						per gli impianti delle Olimpiadi invernali di Torino, 
						lavorano alla nuova tratta ferroviaria Milano-Bologna, 
						al passante di Mestre, alla metropolitana di Milano, e 
						hanno manifestato interesse alla costruzione a Vicenza 
						della nuova caserma Ederle che ospiterà tremila soldati 
						statunitensi con le loro famiglie. Una base militare che 
						la sinistra estrema osteggia in ogni modo. Inoltre, 
						Coopsette, cooperativa di Reggio Emilia, si è 
						aggiudicata il contratto per la realizzazione delle 
						opere di sottoattraversamento ferroviario (TAV) e della 
						stazione della città di Firenze. Manca soltanto una grande banca 
						di livello nazionale: è questo il cruccio che ha spinto 
						i cooperatori rossi a una serie di ardite operazioni 
						tramite Unipol. La conquista della BNL, l'appoggio alla 
						Popolare di Lodi per l'ascesa in Antonveneta, il 
						sostegno a Montepaschi: le incursioni nel mondo 
						creditizio sono state guardate con benevolenza dall'ex 
						governatore della Banca d'Italia, il cattolicissimo 
						Antonio Fazio, che per motivi "patriottici" preferì 
						spianare la strada alle Coop rosse a scapito degli 
						investitori stranieri. Se a Unipol fosse riuscito il 
						colpo grosso di acquistare la Banca Nazionale del 
						Lavoro, avrebbe visto la luce il sesto conglomerato 
						finanziario in Italia per totale di attività e margini, 
						subito a ridosso del gruppo Capitalia, e addirittura il 
						quarto per ricavi. A tutte le critiche il 
						presidente Giuliano Poletti risponde sicuro del fatto 
						suo. La scalata Unipol a BNL? «Un'operazione legittima e 
						in linea con le esigenze di crescita del mondo 
						cooperativo». Le telefonate (intercettate) attraverso 
						cui venivano informati i vertici dei DS? «Un fatto del 
						tutto normale, vista la complessità dell'operazione e il 
						sistema di relazioni in atto, ma non ci sono stati 
						comportamenti scorretti, né tanto meno ingerenze». Le 
						accuse di collateralismo con il "partito" della Quercia? 
						«Fenomeno finito, ormai è soltanto un pezzo della storia 
						d'Italia».   Porte girevoli 
						tra Coop e Quercia   Se fosse davvero così, se il 
						collateralismo fosse davvero un capitolo archiviato, 
						qualcuno dovrebbe spiegare il perché dell'intrecciarsi 
						di telefonate tra Consorte, Passino e D'Alema ai tempi 
						della scalata alla Banca Nazionale del Lavoro. E 
						soprattutto perché tra PCI-PDS-DS e Legacoop c'è stata e 
						continua a esistere una vera osmosi 
						dirigenziale. Il leader storico della cooperazione, 
						Ivano Barberini, ora presidente dell'Archivio Disarmo, 
						siede anche nel Consiglio di amministrazione della 
						Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema C Giuliano 
						Amato, ente finanziato dalle Coop. Il suo Successore, 
						Giuliano Poletti, è stato consigliere del PDS alla 
						Provincia di Bologna e in precedenza assessore del PCI 
						al Comune di Imola. Risalendo indietro negli anni, 
						nella vita di ciascun presidente di Legacoop si trova 
						una costante: la tessera del Partito Comunista Italiano. 
						Giulio Cerretti: dirigente del PCI. Silvio Paolicchi: 
						segretario della federazione comunista di Pisa. Silvio 
						Miana: segretario regionale del PCI dell'Emilia Romagna. 
						Vincenzo Gaietti: segretario della federazione comunista 
						di Bologna. Valdo Magnani: deputato del PCI. Onelio 
						Prandinì: deputato del PCI. Lanfranco Turci: presidente 
						della Regione Emilia Romagna e senatore della Quercia. 
						Giancarlo Pasquini: consigliere comunale del PCI a 
						Bologna. Le nomenklature delle Coop traboccano ancora di 
						personaggi le cui carriere sono tutte un andirivieni col 
						"partito", un vortice di pedine che si scambiano. E che 
						magari vengono a trovarsi in posizioni potenzialmente 
						conflittuali. A Ravenna il responsabile del 
						settore agroalimentare della Legacoop cittadina, 
						Gilberto Minguzzi, è stato assessore provinciale 
						all'agricoltura per il "partito". Il reggiano Oddo 
						Torelli, che fu assessore comunale all'urbanistica e 
						provinciale alla pianificazione del territorio, adesso 
						presiede la Orion, grossa cooperativa edilizia di 
						Cavriago con oltre 200 milioni di fatturato che vanta 
						molti fiori all'occhiello, dagli impianti per le 
						Olimpiadi invernali di Torino (pista da bob, Ovai, 
						villaggio giornalisti) al raddoppio del raccordo anulare 
						di Roma. Torelli insomma si occupa sempre di lavori 
						pubblici, ora come imprenditore cooperativo ora come 
						amministratore pubblico. Le ramificazioni arrivano fino 
						al settore bancario. Un caso eclatante: Antonella 
						Spaggiari, sindaco diessino di Reggio Emilia per 13 anni 
						e dipendente della Legacoop cittadina (è responsabile 
						del settore servizi), presiede la fondazione 
						Manodori-Cassa di risparmio di Reggio Emilia. Un ente 
						che è importante azionista di Capitalia e, con la 
						fusione Capitalia-Unicredit, del primo gruppo bancario 
						italiano nel cui board esprimerà un proprio 
						consigliere nella persona di Donato Fontanesi, 
						presidente della reggiana Coopsette.   Le inchieste 
						finite nel nulla   Questa girandola di nomi aveva 
						attirato, negli anni '90, l'attenzione dell'lNPS: ne 
						nacque uno scandalo clamoroso ma passato sotto silenzio 
						grazie al fatto che nelle aule di giustizia delle 
						regioni rosse si usano due pesi e due misure. Da una 
						serie di controlli, l'istituto previdenziale aveva 
						notato che i funzionar! del PCI-PDS eletti a incarichi 
						pubblici (sindaco, assessore, consigliere comunale, 
						eccetera) si erano licenziati dal "partito" per essere 
						assunti da strutture della Legacoop. Centinaia di persone in tutta 
						Italia, ma soprattutto nelle regioni governate dalla 
						sinistra (Emilia, Toscana, Umbria), avevano chiuso il 
						"triangolo rosso" passando dal "partito" ai vertici 
						degli enti locali attraverso le Coop. Perché non hanno 
						continuato a fare i funzionari di Botteghe Oscure? Non 
						certo per nascondere la triplice veste (ex funzionari 
						del PCI-PDS, dipendenti in aspettativa dì cooperative, 
						amministratori pubblici) con cui si interessavano di 
						piani regolatori e concessioni edilizie. Era questione 
						di soldi. La legge infatti consente ai 
						lavoratori dipendenti diventati pubblici amministratori 
						di mettersi in aspettativa, raddoppiando l'indennità di 
						carica a spese del Comune e scaricando sullo stesso ente 
						pubblico il versamento all'Inps dei contributi che 
						invece spetterebbero al datore di lavoro. Ma un 
						emendamento alla legge proposto da Marco Pannella, 
						nemico storico della partitocrazia, precluse questo 
						beneficio ai dipendenti dei partiti. Insomma, un 
						funzionario del PCI che fosse stato eletto sindaco non 
						avrebbe goduto della doppia indennità mentre i suoi 
						oneri previdenziali sarebbero rimasti sulla groppa del 
						Bottegone. Il PCI tuttavia trovò il 
						sistema di eludere la legge. I dipendenti diedero le 
						dimissioni dal "partito", passarono alle Coop rosse e 
						immediatamente furono collocati in aspettativa. L'intera 
						Giunta comunale di Modena, sindaco e otto assessori, 
						furono assunti alle ore 9 dalla Libreria cooperativa 
						Rinascita e messi in aspettativa alle ore 9.05. Con il 
						doppio stipendio e con i contributi a carico dello 
						Stato, non più del "partito". 1 rilievi dell'lNPS finirono 
						sui tavoli delle Procure. Furono aperte inchieste in 
						tutta Italia; soltanto in Emilia Romagna 66 
						amministratori comunisti, socialisti e repubblicani 
						furono indagati per la presunta irregolarità della loro 
						posizione. Ed ecco scattare la disparità di trattamento: 
						archiviazione nelle regioni rosse, condanne altrove. 
						All'ex sindaco socialista di Vercelli, Fulvio Bodo, fu 
						inflitta la pena di un anno e otto mesi di reclusione 
						(sentenza confermata in Cassazione) perche era stato 
						assunto fittiziamente da una società immobiliare per 
						poter andare in aspettativa e lucrare la doppia 
						indennità. In Emilia, invece, i procedimenti furono 
						archiviati. Per il senatore Terzo Pierani 
						(PDS), sindaco di Riccione, non c'erano prove che non 
						avesse mai lavorato per la società che l'aveva messo in 
						aspettativa. A Modena invece il GIP chiuse il fascicolo 
						perché il fatto non costituiva reato, motivando: 
						«L'assunzione corrispondeva a una opzione professionale 
						che il "partito" (precedente datore di lavoro) offriva 
						ai suoi ex funzionari nel momento in cui ragioni di 
						opportunità politica - si deve riconoscere, lodevoli - 
						sconsigliavano di mantenere alle dipendenze 
						dell'apparato gli eletti in cariche pubbliche». Quello 
						che a Vercelli è reato per un sindaco socialista, a 
						Modena è comportamento «lodevole» per un primo cittadino 
						tesserato del PDS.   La strana legge 
						sui farmaci   Nonostante ciò che tutti 
						proclamano, il rapporto privilegiato tra il "partito", 
						la politica e le Coop continua a sussistere. Ne è un 
						esempio il primo "decreto Bersani", quello che 
						liberalizzò la vendita dei farmaci da banco nei 
						supermercati. Una liberalizzazione mirata, giacché i 
						vincoli imposti dalla normativa escludono di fatto dai 
						benefici le catene come Esselunga. La legge prevede infatti che i 
						medicinali siano venduti in appositi reparti, separati 
						dagli altri prodotti in commercio e ben identificabili, 
						alla presenza di almeno un farmacista iscritto 
						all'Ordine. Un obbligo che rende possibile l'apertura di 
						questi spazi solamente in negozi di grandi dimensioni, 
						in pratica soltanto negli 
						ipermercati: una fascia di mercato in cui sono presenti 
						primariamente le Coop. L'obbligo della presenza del 
						farmacista, poi, comporta l'assunzione di tre se non 
						quattro persone, visto che nella grande distribuzione i 
						punti vendita restano aperti sei giorni alla settimana 
						su sette (in certi periodi anche la domenica) per 13 ore 
						giornaliere. Federdistribuzione, la federazione che 
						raggruppa gran parte delle aziende del settore, aveva 
						chiesto al governo di fare una riforma vera, cioè di 
						consentire di mettere in vendita senza alcuna 
						intermediazione i farmaci da banco, come avviene da 
						sempre nei Paesi stranieri. Niente presenza del 
						farmacista, visto che quelle specialità sono di 
						auto-medicazione, essendo state concepite per essere 
						utilizzate senza l'intervento del medico. Anche Federfarma, la 
						federazione delle farmacie private, era d'accordo. Ma 
						Bersani non tenne conto di queste richieste e decise di 
						non eliminare il farmacista dai supermercati. Una scelta 
						in linea con la bozza di legge predisposta proprio dalle 
						Coop nel 2005, le cui proposte sono dunque state accolte 
						in pieno. A che cosa è funzionale la presenza dei camici 
						bianchi? Ci vuoi poco a capirlo: fra qualche anno le 
						Coop faranno pressione per trasformare questi reparti in 
						farmacie vere e proprie, dove possano essere vendute 
						tutte le specialità; si comincerà con la 
						commercializzazione dei farmaci di fascia C. E così la 
						liberalizzazione, a loro uso e consumo, sarà completa. «La grande sfida per i prossimi 
						anni», ha detto Giovanni Doddoli, presidente di Legacoop 
						Toscana, «sarà quella di generare cooperazione in nuovi 
						settori nei quali adesso la cooperazione non è presente: 
						terziario avanzato e utility. L'obiettivo è quello di 
						creare lavoro e ricchezza diffusa e non individuale, il 
						che si concilia benissimo con un sistema economico che 
						voglia evolvere i propri modelli nel desiderio di 
						svilupparsi». Dalle pulizie alla gestione dei centri 
						telematici, dai trasporti per le aziende della GDO alle 
						librerie, dalle pompe di benzina al business dei 
						telefonini, dal turismo alla gestione della previdenza 
						complementare: ecco alcuni cavalli di battaglia delle 
						Coop.   Piazza Affari e 
						"tesoretti" esteri   Accanto a settori tradizionali 
						come pesca, agroalimentare, costruzioni, imprese dì 
						pulizie, assistenza sociale, prendono piede attività 
						cooperativistiche più innovative, come la logistica, le 
						comunicazioni, l'ingegneria e la progettazione. Ma la 
						passione più recente e più rischiosa è la finanza. 
						L'alta finanza, quella che vive nei templi del capitale, 
						fatta di scatole cinesi per il controllo delle società, 
						dì speculazioni, di operazioni in paradisi fiscali 
						stranieri, di "tesoretti" esteri esentasse (ne sa 
						qualcosa Coopservice di Reggio Emilia). E di ricche 
						plusvalenze come quella pari a 6,5 milioni di euro 
						realizzata nel 2006 da Coop Adriatica grazie alla 
						vendita delle azioni BNL a BNP Paribas. La prima Coop a quotarsi è 
						stata Unipol, nata nel 1963 e diventata negli anni 
						recenti la terza compagnia assicurativa italiana con 
						premi per 8,4 miliardi di euro, forte di un gruppo che 
						fornisce anche servizi bancari, finanziari, di gestione 
						del risparmio e consulenza; è controllata dalla 
						finanziaria Finsoe a sua volta posseduta dalla 
						finanziaria Holmo, di cui sono socie 46 grandi 
						cooperative capaci di deliberare un aumento di capitale 
						di 444 milioni di curo. «C'è e ci sarà sempre più 
						necessità di finanza per le Coop che vogliono crescere», 
						ha spiegato Poletti, presidente di Legacoop. Infatti 
						Unipol è affiancata da Coopfond (gestore del fondo 
						mutualistico generato dal 3% degli utili annuali di 
						tutte le Coop aderenti alla Lega), Finec Merchant 
						(finanziaria d'affari), CCFS (Consorzio cooperativo 
						finanziario per lo sviluppo). La quotazione in Borsa è un 
						terreno ancora poco esplorato ma assai redditizio, e i 
						cooperatori lo sanno bene. Unipol e soprattutto IGD 
						hanno realizzato plusvalenze ricchissime grazie al 
						collocamento. Il segreto, secondo gli analisti di 
						Intermonte, ING ed Euromobiliare, sta proprio in «un 
						modello di business dotato di un'elevata visibilità e 
						solidità», all'interno di un contesto congiunturale in 
						«netta espansione». Pronte a spiccare il balzo verso il 
						cuore del mercato capitalistico sono altre grandi realtà 
						aziendali a controllo cooperativo, come Manutencoop 
						Facility Management Spa (servizi alle imprese) e Grandi 
						Salumifici Italiani Spa (marchi Unibon e Senfter). Un colpaccio stava per essere 
						realizzato da Coopservice di Cavriago (Reggio Emilia), 
						colosso del settore pulizie industriali, sicurezza e 
						logistica, che ha portato in Borsa la controllata 
						Servizi Italia dì Soragna (Parma), azienda leader delle 
						lavanderie industriali e sterilizzazione di biancheria e 
						strumentazione chirurgica. Qualche mese prima della 
						quotazione, Coopservice ha piazzato alla Fondazione 
						Manodori di Reggio oltre il 40% del capitale che in 
						seguito ha ricomprato quasi per intero trasferendolo 
						contestualmente a una finanziaria in Lussemburgo, la 
						First Service Holding (FSH). Un'operazione di portage
						realizzata grazie all'ente di cui è presidente l'ex 
						sindaco reggiano, la diessina Antonella Spaggiari, 
						manager di Legacoop. Il prezzo di riacquisto è stato 
						di 1,149 euro per azione. Poi Coopservice ha curato un 
						aumento di capitale di FSH invitando la platea dei 
						propri 5.000 soci ad aderirvi: soltanto 300 però, una 
						parte molto minoritaria, hanno deciso di investire nel 
						Granducato consentendo così ai vertici della 
						cooperativa, con in testa il presidente Pierluigi 
						Rinaldini e il vice Barbara Piccirilli, di rastrellare 
						le quote inoptate raggiungendo il 9,5%. Con il 
						collocamento, i circa cinque milioni di titoli Servizi 
						Italia acquistati dalla Manodori a 1,149 sono balzati a 
						8,5 euro. Significa che i 300 lungimiranti soci di 
						Coopservice e FSH si sono ritrovati un "tesoretto" 
						esentasse di 36 milioni di euro in Lussemburgo. La gigantesca speculazione 
						doveva estendere i benefici della grande finanza ai 
						tanti piccoli cooperatori che non erano mai anelati 
						oltre gli interessi maturati sul libretto del prestito 
						sociale. Ma l'operazione si è trasformata in un 
						boomerang altrettanto colossale: Legacoop, rimasta 
						all'oscuro di tutto fino a quando è stato pubblicato il 
						prospetto relativo al collocamento di Servizi Italia, ha 
						preso malissimo la manovra, costringendo i vertici di 
						Coopservice a dare le dimissioni e a sconfessare 
						l'ingegnosa costruzione finanziaria. Gli investitori 
						dovranno restituire la favolosa plusvalenza. «È stata 
						ottenuta in modo non corrispondente ai criteri di 
						mutualità cooperativa», ha tuonato il numero uno di Legacoop Reggio Emilia, lido Cigarini. 
						 Grande 
						distribuzione: a Coop un quarto del mercato   Ma prima delle costruzioni e 
						sopra la finanza, pulsa ancora il motore della Legacoop, 
						la centrale che ne alimenta ogni progetto di crescita: 
						la grande distribuzione. Un sistema strutturato in 
						cooperative territoriali. La maggiore è Unicoop Firenze, 
						la più grande azienda di tutta la Toscana, seguita da 
						Coop Adriatica e Coop Estense. Al quarto posto si 
						colloca Unicoop Tirreno (sede a Livorno), al quinto Coop 
						Lombardia (Milano) e al sesto Coop Nord-Est (Reggio 
						Emilia). Il perno di tutto il gruppo è Coop Italia, 12 
						miliardi di fatturato, la centrale acquisti e marketing 
						che gestisce approvvigionamenti e politica commerciale, 
						guidata da Vincenzo Tassinari. Nella top ten interna a 
						Legacoop, otto società appartengono alla GDO, una (Sacmi) 
						è del settore meccanico e l'ultima (Granlatte-Granarolo, 
						compartecipata anche da Confcooperative) fa parte del 
						settore alimentare. In totale le aziende associate sono 
						circa 160. Il marchio Coop detiene una quota del mercato 
						nazionale della grande distribuzione pari al 17,2% che, 
						unita al 9,2% di Conad, altri 8 miliardi di fatturato, 
						porta la fetta spettante a Legacoop al 26,4%. Un quarto 
						abbondante del totale. Una presenza così massiccia 
						delle cooperative nel settore distributivo è un fatto 
						che non ha uguali negli altri grandi Paesi europei. In 
						Francia il movimento mutualistico, rimasto forte nel 
						comparto creditizio, è pressoché scomparso da quello 
						della distribuzione, presidiato dai colossi privati 
						Carrefour, Intermarche, Auchan, Casino, Ledere (oltralpe 
						la GDO copre il 60% delle vendite al dettaglio). Anche 
						in Germania le Coop si sono ritirate dalla grande 
						distribuzione organizzata, il cui mercato ora è in mano 
						a pochi attori: in testa il gruppo Metro, seguito da 
						Rewe e Edeka. Le dieci maggiori imprese tedesche 
						del settore controllano l'8.5% del mercato; allargando 
						il computo alle 30 maggiori imprese, la quota 
						controllata tocca il 98%.   Un'egemonia 
						quasi assoluta   Ma in che modo Legacoop ha 
						acquisito questa posizione di preminenza? I rapporti 
						privilegiati con le amministrazioni locali dove da 
						decenni governa la sinistra spiegano parecchie cose, ma 
						non tutto. Le Coop sono favorite anche dalla loro 
						struttura societaria e da un assetto legislativo e 
						fiscale tutto particolare. Non sono imprese qualsiasi, 
						ma si configurano come un anello intermedio tra settore 
						pubblico e mercato; sono enti senza fini di lucro e 
						dovrebbero devolvere una parte sostanziale degli utili a 
						scopi mutualistici. L'acquisto e la cessione di quote 
						non avvengono sul libero mercato: sono operazioni 
						soggette all'approvazione del Consiglio di 
						amministrazione. Nessun socio può avere la maggioranza 
						delle quote e ogni socio ha diritto a un voto (il 
						cosiddetto voto capitario); di conseguenza le Coop non 
						sono contendibili. Insomma, non sono soggette alle 
						leggi del libero mercato. Appartengono a una sfera 
						protetta. Il management ha un grande 
						potere e non si deve preoccupare di tenere a bada gli 
						azionisti. Non essendo le Coop scalabili, i suoi manager 
						si trovano a gestire un'egemonia quasi assoluta. Chi 
						difende il patrimonio collettivo dal potere dei suoi 
						amministratori? Che cosa accadrebbe se una grande 
						operazione condotta da un protagonista del sistema 
						cooperativo si dovesse rivelare un boomerang? Una 
						risposta, purtroppo, esiste già. Basta recarsi nel 
						Ferrarese, dove decine di migliaia di persone sono state 
						travolte dal crac della Cooperativa Costruttori di 
						Argenta presieduta da Giovanni Donigaglia, frantumatasi 
						dopo le inchieste della magistratura su appalti e 
						corruzione. Torna in mente il pesante attacco sferrato 
						già nel 1986 dall'allora segretario della CGIL, 
						Bruno Trentin, alle «imprese che si chiamano cooperative 
						solo per avere esenzioni fiscali» e che non trattano i 
						lavoratori meglio delle altre. Giudizio ripetuto 
						dall'ex sindacalista alla fine del 2005 in un'intervista 
						all'Unità: «Le cooperative hanno perso l'anima». Legacoop si è tuffata in questa 
						inadeguatezza legislativa allargando l'originario 
						raggio d'azione soprattutto sul versante finanziario. Le 
						sue società sollecitano il risparmio, intervengono sul 
						mercato dei capitali, emettono azioni e obbligazioni, 
						sono quotate in Borsa pur mantenendo privilegi di cui le 
						imprese concorrenti non godono, come le agevolazioni 
						fiscali e il voto capitario. I privilegi tributar! hanno 
						un senso per le imprese più deboli, che non sono in 
						grado di finanziarsi sul mercato dei capitali, mentre 
						ormai non ne hanno più per i colossi cooperativi di 
						oggi, che sono quotati o emettono titoli. Lo stesso vale 
						per il voto capitario: per i gruppi maggiori, 
						soprattutto se presenti in Piazza Affari, non ci può 
						essere contendibilità a senso unico. Unipol - per fare 
						un esempio - può scalare BNL, ma non viceversa perché lo 
						impedisce la struttura proprietaria che sta a monte 
						delle società cooperative.         Un regime 
						fiscale di favore       L'elenco di privilegi riservati 
						alle Coop è sbalorditivo. Primo fra tutti un particolare 
						regime fiscale fissato dalle leggi che hanno regolato il 
						settore ai suoi albori, in base alle quali gli utili 
						delle cooperative non sono tassabili a condizione che 
						non vengano distribuiti ai soci ma restino nel 
						patrimonio della società stessa. È un riconoscimento 
						alle caratteristiche dell'impresa cooperativa, la quale 
						- almeno in linea di principio - non può chiedere 
						finanziamenti al mercato come una qualsiasi altra 
						società. Ma il vantaggio, sia pure 
						ridimensionato, è rimasto anche dopo che la riforma del 
						diritto societario ha ridisegnato il mondo delle Coop, 
						distinguendo fra quelle a mutualità prevalente e non: le 
						prime sono le Coop "tradizionali", in quanto svolgono 
						gran parte della loro attività in favore dei soci, si 
						avvalgono delle loro prestazioni lavorative e dei loro 
						apporti di beni o servizi. Per le cooperative a mutualità 
						prevalente, i vantaggi fiscali sono molteplici: 1) la 
						deducibilità dall'imponibile del 70% dell'IRES; 2) la 
						deducibilità integrale degli utili destinati a riserve 
						obbligatorie (riserva legale e fondi mutualistici); 3) 
						la deducibilità del 70% degli utili destinati a riserve 
						volontarie (purché indivisibili). Da tutto questo deriva 
						che l'incidenza dell'IRES sull'utile lordo delle Coop è 
						pari al 17%, mentre quella sull'utile lordo di una 
						società non cooperativa è pari al 43%. Una differenza di 
						26 punti percentuali.   Il prestito 
						sociale, risorsa inesauribile   La capacità di 
						autofinanziamento e quindi di alimentare costantemente 
						gli investimenti è garantita da un altro privilegio 
						esclusivo delle Coop, soprattutto di quelle dì consumo: 
						il prestito sociale. Di fatto esse funzionano come 
						fossero sportelli bancari (anche se la legge vieta 
						«l'esercizio attivo del credito»): raccolgono i risparmi 
						dei soci, H impiegano come meglio credono e 
						distribuiscono interessi che i veri istituti di credito 
						si sognano grazie al fatto che l'imposta sugli interessi 
						non è pari al 27% (come per i depositi bancari) bensì a 
						meno della metà: soltanto il 12,5%. Un bel risparmio, un 
						affarone per tutti. Per i risparmiatori, che possono 
						lucrare un interesse elevato; e per le Coop, messe nelle 
						condizioni dì autofinanziarsi con una massa di liquidità 
						a buon mercato e soprattutto sottratta ai controlli 
						delle autorità creditizie. Questa montagna di denaro è 
						complessivamente pari a 12 miliardi di euro: quanto una 
						manovra finanziaria di media entità del governo. È 
						questa la provvista-base con cui Unipol voleva dare la 
						scalata alla Banca Nazionale del Lavoro. La legge 
						concede la raccolta di denaro tramite prestito sociale 
						per tutelare gli scopi sociali e mutualistici, ma di 
						fatto le Coop usano i soldi prestati per fare 
						investimenti, comprare titoli o magari scalare banche, 
						quelle stesse a cui fanno concorrenza. Naturalmente le Coop spiegano 
						che il prestito sociale viene impiegato per migliorare i 
						servizi ai soci e renderli più convenienti. Esso «ha 
						svolto e svolge una importante funzione di rafforzamento 
						del rapporto di fiducia tra socio e cooperativa», si 
						legge nel Rapporto sociale del sistema Coop 
						nazionale, «e costituisce una componente economica 
						importante ai fini dei risultati gestionali». In realtà, 
						il prestito sociale è un sistema che consente alla 
						galassia mutualistica di sovrapporsi alle banche e 
						autofinanziarsi senza chiedere mutui o emettere 
						obbligazioni, come invece sono costrette a fare tutte le 
						altre imprese. I soci aprono un libretto su 
						cui vengono annotati versamenti e prelievi. Sul medesimo 
						può anche essere addebitata la spesa al supermercato 
						Coop. Tutte Se operazioni sono gratuite. L'unico limite 
						e un tetto ai depositi, che non possono superare i 
						30.000 euro. Per le Coop i limiti di operatività non 
						sono molti: devono mantenere liquido o investito in 
						attività immediatamente liquidabili almeno il 30% della 
						raccolta, vincolandone al massimo il 30% in immobili, 
						impianti e partecipazioni societarie. La grande 
						maggioranza dei capitali è collocata in titoli di Stato 
						e obbligazioni societarie, con quote residue in fondi e 
						altri strumenti finanziari. Non c'è banca o ufficio 
						postale che possa offrire al risparmiatore condizioni 
						paragonabili a queste. Un caso concreto aiuta a capire 
						meglio quanto siano distanti i binari su cui corrono le 
						Coop e quelli sui quali arrancano le imprese private. Il 
						bilancio 2004 della Coop Estense, tra i principali 
						finanziatori della galassia Unipol, mostra che a fronte 
						di ricavi per 1,2 miliardi di euro il patrimonio netto è 
						pari a 485 milioni e i finanziamenti dai soci ammontano 
						addirittura a 869 milioni, dei quali 654 investiti in 
						Buoni del Tesoro, obbligazioni, fondi, assicurazioni e 
						azioni Unipol e Banca Popolare dell'Emilia. Mentre 
						dunque la concorrenza è costretta a chiedere i soldi 
						alle banche e a pagare interessi di mercato, Coop 
						Estense per quell'immenso capitale ottenuto in prestito 
						dai soci versa più o meno l'l,5%. Reinvestendo il denaro 
						in BTP guadagna quasi il doppio. Analogo discorso vale 
						per la Coop Adriatica, all'epoca gestita da Stefanini. Il patrimonio netto delle 
						singole società aderenti a Legacoop, gonfiatosi nel 
						tempo grazie al meccanismo della fiscalità agevolata, 
						sarebbe di per sé sufficiente a finanziarne la gestione 
						caratteristica. Il prestito sociale è un'ulteriore fonte 
						di liquidità, parcheggiata in titoli o investita nella 
						galassia finanziaria rossa. Ecco il quadro in cui 
						operano le Coop, che vogliono competere sul mercato 
						senza rinunciare ad ammantarsi di finalità sociali, in 
						virtù delle quali ottengono vantaggi fiscali unici e 
						godono di assetti societari che le rendono 
						autoreferenziali, non controllabili né scalabili.   Nel mirino della 
						UE e della Cassazione   E talmente vistosa questa 
						anomalia che le istituzioni comunitarie hanno deciso dì 
						promuovere accertamenti ufficiali. La Commissione 
						Europea ha infatti inviato a Palazzo Chigi una lettera 
						nella quale chiede conto del regime agevolato di cui 
						godono le nove maggiori cooperative. La contestazione 
						principale riguarda proprio il fatto che, a differenza 
						delle altre imprese, le Coop non pagano l'IRES su buona 
						parte degli utili. A Bruxelles sospettano che anche la 
						nuova normativa configuri un aiuto di Stato, vietato dai 
						Trattati europei. La richiesta non rappresenta ancora 
						l'apertura di un'inchiesta formale, ma è il passo 
						preliminare per permettere al commissario alla 
						Concorrenza di decidere se farla partire. Era stata l'associazione 
						nazionale delle aziende della grande distribuzione, 
						Federdistribuzione, a presentare alla Commissione UE un 
						esposto nel quale si fa presente che le cooperative sono 
						ormai aziende leader nei rispettivi campi di azione. E 
						che proprio per questo avrebbero perso la natura 
						mutualistica, e quindi la funzione sociale, delle 
						origini. Tanto basterebbe per applicare alle Coop lo 
						stesso regime fiscale applicato a tutte le altre 
						imprese. Anche la Cassazione aveva messo 
						sotto la lente gli sgravi, chiedendo lumi alla UE. «I 
						regimi fiscali di favore concessi a determinate imprese 
						o produzioni», ha argomentato la Suprema Corte, «possono 
						costituire aiuti dì Stato». Sotto la lente dei giudici 
						italiani e della concorrenza europea non è finita 
						soltanto la grande distribuzione: nell'inchiesta 
						potrebbero infatti essere coinvolte anche le banche che 
						appartengono al sistema cooperativo. Un passaggio della 
						lettera della Commissione fa riferimento proprio a 
						questo mondo e chiede al governo quali misure di 
						controllo siano state varate «dall'autorità incaricata 
						della vigilanza bancaria per assicurare il rispetto dei 
						requisiti di mutualità previsti per la concessione dei 
						benefici fiscali». L'Unione Europea ha avanzato un 
						ampio ventaglio di richieste. Si vuole sapere se gli 
						sconti fiscali siano previsti da una legge precedente 
						alla firma dei trattati UE: nel caso in cui la norma 
						fosse successiva, scatterebbe l'obbligo di recupero 
						retroattivo degli aiuti che l'eventuale procedura di 
						infrazione dovesse giudicare illegali. Si vuole 
						conoscere l'ammontare annuo degli sgravi concessi e i 
						risultati di bilancio delle nove centrali cooperative, 
						anche per valutare l'impatto della loro attività sulla 
						concorrenza. SÌ vuole comprendere la ragione di 
						eventuali deroghe al divieto di aiuti di Stato sancito 
						dai trattati europei.   Controllori e 
						controllati   A proposito di bilanci. Chi 
						controllava i conti delle maggiori cooperative di 
						consumo e di distribuzione quando scoppiò il caso 
						Unipol? Una società di revisione semisconosciuta su cui 
						sono state presentate interrogazioni parlamentari. Si 
						chiama Uniaudit Spa ed è di Bologna. Non essendo 
						iscritta nell'elenco speciale della Consob, non può 
						annoverare società quotate in Borsa tra i clienti. Che 
						cos'ha dunque di tanto speciale da consentirle di 
						egemonizzare la certificazione dei conti 
						cooperativistici? Semplice: Uniaudit è una società "di 
						casa". Il principale azionista (35%) è Unipol, poi 
						figurano le Coop medesime e alcuni privati, tra i quali 
						esponenti di primo piano del mondo cooperativo. Per un 
						periodo, tra i soci appariva anche Giovanni Consorte, 
						che poi però vendette la propria quota. Legacoop Bologna 
						la promuove tra le aziende associare in grado di fornire 
						il servizio di controllo contabile. Succede dunque che questi 
						colossi del commercio e della finanza non si affidino a 
						grandi società di revisione indipendenti, ma a una 
						piccola realtà che indirettamente è una loro 
						controllata. Il corto circuito è lampante: un conflitto 
						di interessi che in altri casi avrebbe fatto alzare 
						fortissime voci di scandalo. I clienti di Uniaudit sono 
						gli stessi padroni di Uniaudit, ai quali Uniaudit 
						dovrebbe fare le pulci sul bilancio.         Greganti, 
						Peruzzi e le indagini degli anni '90       II Parlamento, il governo, 
						l'Unione Europea, le Corti di giustizia. Non soltanto 
						questi soggetti si sono occupati della Lega delle 
						Cooperative. Anche le Procure della Repubblica, 
						soprattutto negli anni '90. L'inchiesta "madre", per 
						molti aspetti, fu quella condotta dal pubblico ministero 
						veneziano Carlo Nordio. Il magistrato indagò i segretari 
						nazionali del PDS, Achille Occhetto e Massimo D'Alema, e 
						li prosciolse. Dagli atti emerge chiaramente la funzione 
						delle Coop rosse, e delle finanziarie 
						controllanti-controllate, come braccio economico dell'ex 
						Partito Comunista. Il meccanismo fu messo in luce da 
						Giuliano Peruzzi, consulente delle Coop e braccio 
						destro di Primo Greganti, responsabile amministrativo 
						del PDS. Sui rapporti economici tra Coop 
						e PCI-PDS in quegli anni fu alzato un vero fuoco di 
						sbarramento, teso a negare l'esistenza dell'asse tra 
						"partito" e aziende. Nei mesi scorsi, invece, nel 
						turbine dello scandalo Unipol, il giudizio è mutato. Si 
						è detto che «il collateralismo è finito», non che non è 
						mai esistito. Che i legami tra la parte politica e il 
						suo braccio economico si sono allentati rispetto al 
						passato: dieci anni prima, invece, si negava tutto, 
						anche l'evidenza. Ora la linea è cambiata. «Il rapporto era organico, con 
						finanziamenti indiretti ma occulti», ha spiegato il pm 
						Nordio. «Furono raggiunte prove evidentissime del fatto 
						che le Coop rosse finanziassero il "partito", ma per il 
						Codice la responsabilità penale è personale. E io non ho 
						mai accettato il principio secondo cui chi sta al 
						vertice "non può non sapere". Una cosa sono i 
						finanziamenti al "partito", altra cosa la responsabilità 
						penale individuale rispetto al finanziamento clandestino 
						e continuativo delle società cooperative, dimostrato 
						dall'inchiesta». Peruzzi svelò come funzionavano 
						l'economia nascosta del "partito" e gli intrecci tra Finsoe, Finsoge e PCI-PDS. Il magistrato veneto arrivò a 
						calcolare l'esistenza di un patrimonio immobiliare della 
						Quercia dell'ordine di mille miliardi di lire, ma a 
						Botteghe Oscure non spiegarono come si fosse potuta 
						accumulare una fortuna del genere, che riconduceva a 
						decine di società immobiliari e a intestazioni fittizie: 
						centinaia di prestanome, fedeli militanti del "partito" 
						che ne era il vero proprietario. Era stata la Procura 
						della Repubblica di Milano nel 1993, durante una 
						perquisizione a Botteghe Oscure, a scoprire una stanza 
						piena di fascicoli relativi agli immobili posseduti 
						dalla Quercia, ma la documentazione per un errore non 
						fu sequestrata subito. E il giorno dopo era sparita: un 
						episodio sul quale si aprì un'inchiesta. «Avevamo fatto uno 
						"screening" degli organigrammi di Coop e PCI-PDS 
						verificando come i vertici delle aziende fossero 
						interscambiabili con quelli della Quercia», ha 
						raccontato Nordio. «Poi scoprimmo che le assunzioni 
						fittizie fatte dalle Coop servivano a favorire il 
						trattamento economico-previdenziale dei dipendenti 
						del "partito". Fatti ampiamente 
						confermati ai magistrati inquirenti di Milano, Napoli e 
						Venezia da chi vi aveva lavorato. Il primo canale di 
						finanziamento del PCI era quello che veniva dall'Unione 
						Sovietica, un Paese che teneva i suoi missili puntati su 
						di noi. Inoltre il "partito" incassava provvigioni sul 
						commercio con i Paesi dell'Est». E le Coop? «Esse avevano una 
						riserva rigorosa di appalti pubblici frutto di accordi 
						politici spartitori a livello nazionale e regionale», ha 
						ricostruito il magistrato. «In questo senso non c'era 
						alcuna differenza tra DC, PSI e PCI: si erano divisi 
						equamente tutto, con qualche briciola per gli alleati 
						minori. Democristiani e socialisti sponsorizzavano le 
						imprese amiche, i comunisti le Coop. Ai primi due 
						partiti giungevano contributi in denaro con i quali si 
						pagavano Ì funzionali e le altre spese; a Botteghe 
						Oscure i funzionati erano pagati dalle Coop, ma 
						lavoravano per il "partito". Risultato identico 
						attraverso strumenti diversi. Anche dal punto di vista 
						penale: la mazzetta integra il reato di corruzione, il 
						sistema del PCI no. Un altro modo di finanziamento era 
						quello della pubblicità inesistente: le Coop pagavano 
						cifre enormi per farsi pubblicità sui giornaletti del 
						"partito". Spesso le inserzioni, pagate, non venivano 
						nemmeno pubblicate». Anche la Procura di Napoli 
						condusse lunghe indagini con i Reparti Operativi 
						Speciali dei Carabinieri. Un'inchiesta sterminata: 
						migliaia di documenti, testimonianze, bilanci, 
						intercettazioni telefoniche; il solo riassunto finale 
						occupa 1.200 pagine. Le carte parlano di bilanci falsi, 
						fondi neri, licenze edilizie "facili", collusioni con la 
						camorra, finanziamenti illeciti, truffe allo Stato, 
						tangenti, società di comodo. «La Lega delle 
						Cooperative», si legge in un passo della relazione 
						conclusiva dei ROS, «beneficiando dell'apporto 
						incondizionato dell'organismo politico, accrescerebbe la 
						propria forza economico-imprenditoriale garantendo ai 
						partiti di riferimento il mantenimento economico e 
						riversando, mediante alcune società, finanziamenti 
						stornati, soprattutto illecitamente, dalle imprese del 
						movimento cooperativo». E più avanti i ROS spiegano cosi 
						il successo di Unipol: «La compagnia comincia la sua 
						crescita inarrestabile, forte del consenso di tutti i 
						sindacati italiani che senza esclusione partecipano al 
						capitale sociale e garantita dalla protezione politica 
						del PCI che impone a tutte le sue amministrazioni locali 
						di sinistra di stipulare esclusivamente con Unipol 
						qualsiasi polizza assicurativa di loro competenza».   Donigaglia e il 
						crac di Argenta   Lo scandalo giudiziario più 
						clamoroso che ha investito Legacoop, dopo quello 
						Consorte-Unipol, ha come protagonista un ragioniere di 
						Argenta (Ferrara), Giovanni Donigaglia, finito 
						stritolato negli ingranaggi del "partito" che aveva 
						fedelmente servito per tutta la vita. Un uomo che si 
						accontentava dello «stipendio di un capomastro» (1.500 
						euro al mese), che per 43 anni ha guidato la 
						Coopcostruttori, quarta impresa nazionale dopo 
						Impregilo, Astaldi e Condotte, che era arrivata a 
						fatturare 680 milioni di curo nel 2001 e a stipendiare 
						2.518 dipendenti impegnati in decine di cantieri in 
						mezza Italia: i giornali l'avevano battezzata «la perla 
						dell'universo rosso». Poi il crac. Il primo gruppo 
						edilizio del pianeta Legacoop crollò sotto 
						l'insostenibile peso di 870 milioni di euro di debiti. E 
						le Coop, anziché venirgli in aiuto, decisero di 
						liquidarlo. Donigaglia per decenni fu il 
						principale collettore di finanziamenti verso il 
						PCI-PDS-DS. Negli anni di Mani Pulite fu arrestato 
						cinque volte, passò 12 mesi in carcere, subì 32 processi 
						finiti con 32 assoluzioni. Ma la sua creatura era 
						finita: 900 lavoratori licenziati, altri 1.100 in cassa 
						integrazione, senza contare il disastro finanziario per 
						migliaia di famiglie - a cominciare dalla sua - che 
						avevano investito tutti i loro risparmi nella 
						Coopcostruttori e li hanno perduti. Tra manifestazioni di piazza, 
						assemblee di "partito", comitati spontanei si creò un 
						clima di forte tensione. A casa di Donigaglia fu 
						recapitato un pacco-bomba. Nel Ferrarese la cooperativa 
						era vista al pari di una banca tale era la sua solidità 
						e l'investimento nel prestito sociale, peraltro 
						ottimamente remunerato, era considerato un punto 
						d'onore. Qualche dipendente confessò che quasi si faceva 
						riguardo a ritirare lo stipendio a fine mese. Chi aveva 
						già raggiunto la soglia massima di deposito investiva 
						attraverso i parenti oppure sottoscriveva le "azioni a 
						partecipazione cooperativa" emesse più volte da 
						Donigaglia per fronteggiare le crisi di liquidità, 
						spesso senza avvertire i risparmiatori che si trattava 
						di capitale di rischio. Nell'aprile 2004 il giornalista 
						Stefano Lorenzetto convinse il ragioniere ferrarese a 
						parlare per la prima volta. L'intervista uscì su 
						Panorama. Donigaglia raccontò che la Legacoop o 
						direttamente il "partito" (il PCI ad Argenta era 
						arrivato al 78%) gli avevano ordinato di salvare per 
						convenienza elettorale, dal 1975 in poi, la CERCOM di 
						Porto Garibaldi, la COPMA, la Pelisatti e la CEI di 
						Ferrara, e la CMR (Cooperativa Muratori Riuniti) di 
						Filo d'Argenta, tutte destinate al fallimento. La 
						Costruttori fu obbligata a rilevare perfino la GIR 
						Costruzioni di Rovigo, cassaforte dei dorotei veneti, 
						per fare un favore al ministro democristiano Antonio 
						Bisaglia. Questo patto consociativo, 
						aggiunse Donigaglia, spalancò a Coopcostruttori le 
						porte dell'edilizia pubblica: strade, ferrovie, ponti, 
						dighe, viadotti, parcheggi, porti, trafori, scuole, 
						ospedali, municipi, carceri, caserme, musei, centri 
						sportivi, inceneritori, depuratori, opere di difesa 
						ambientale, pozzi, discariche, centrali elettriche e del 
						gas, reti fognarie, mattatoi. Donigaglia costruì la 
						terza corsia dell'autostrada Serenissima, l'alta 
						velocità ferroviaria Roma-Napoli, l'aeroporto di 
						Malpensa 2000, la ferrovia Firenze-Empoli, la 
						Salerno-Reggio Calabria, il porto di Gioia Tauro. La Lega delle Cooperative, 
						riferì ancora l'imprenditore, pretese da lui un obolo 
						cospicuo per l'acquisto del Molino Moretti di Argenta, 
						che aveva tra i suoi proprietari il marito dell'allora 
						sindaco diessino Silvia Barbieri, la quale sarebbe poi 
						entrata nello staff del segretario nazionale Piero 
						Fassino e successivamente diventata senatrice e 
						sottosegretario. Per ordine di scuderia 
						Donigaglia nel 1990 dovette persino acquistare la Spal, 
						la squadra di calcio di Ferrara: bisognava dare una mano 
						al Comune, amministrato dal PDS. Su sollecitazione del 
						"partito" distribuiva quattrini a tutti, compresi organi 
						di informazione e parrocchie. «Ero diventato il 
						refugium peccatorum» spiegò. «E il "partito" come 
						ricambiava?», gli chiese Lorenzetto. «Vigeva il 
						consociativismo. La Legacoop otteneva la sua bella quota 
						dì lavori in ciascuna 
						opera pubblica. Ma per 
						costruire c'è bisogno che la pratica segua un iter 
						regolare, che gli espropri siano tempestivi, che le 
						concessioni edilizie arrivino. Serve la politica per 
						questo. E l'amicizia». «Quando ho lasciato», rievocò 
						Donigaglia, che adesso amministra una ditta nel 
						Ragusano, «i debiti verso le banche ammontavano a 327 
						milioni di euro ma in portafoglio c'erano ordini per 
						1.086,5 milioni». Se la situazione non era così 
						drammatica, perché la Costruttori fallì? Egidio Checcoli, 
						presidente della Lcgacoop regionale ed ex sindaco 
						comunista dì Argenta (nonché ex dipendente della 
						Coopcostruttori), ha sempre proclamato: «Noi, a 
						differenza delle società di capitali, non abbandoniamo i 
						nostri soci in caso di crac». Eppure nel caso della 
						Coopcostruttori la Lega delle Cooperative si chiamò 
						fuori, limitandosi a puntualizzare che la sua funzione 
						di vigilanza era limitata «alla verifica del rispetto 
						dei requisiti di mutualità», che le banche valutavano la 
						possibilità di intervenire e che era stata avviata 
						«un'azione di solidarietà in due direzioni: verso i 
						lavoratori e verso i soci risparmiatori». «Io ho sempre aiutato il 
						"partito", ma nel momento del bisogno, quando il peso 
						della crisi si abbatte tutto sulle mie spalle, il 
						"partito" non ha aiutato me», è l'accusa di Donigaglia. 
						«Io ho effettuato sottoscrizioni elettorali, 
						sponsorizzazioni, ho comprato pubblicità sull'Unità
						e affittato spazi a festival e congressi. Tutto 
						legale, tutte spese fatturate e messe a bilancio». Nel 1997 la Legacoop inizia 
						un'opera di ricostruzione e riorganizzazione delle 
						cooperative uscite ammaccate da Tangentopoli, e tra 
						queste c'era anche quella di Argenta. «Consorte studiò 
						un piano di ristrutturazione finanziaria e organizzativa 
						che fu abbandonato dopo qualche mese», rincara oggi la 
						dose Donigaglia. «Quando la situazione si aggravò, il 
						pool di tre banche era pronto a finanziare il progetto 
						industriale, ma la Legacoop disse che i soldi sarebbero 
						arrivati a patto che io lasciassi. Obbediente, mi 
						dimisi. Però alla fine l'Unipol negò l'appoggio al piano 
						dì salvataggio. E fu il tracollo. Consorte aveva soldi 
						per tutti fuorché per la Costruttori. Noi non fummo 
						aiutati, e poi abbiamo visto che tipo di fideiussioni si 
						scambiava con Giampicro Fiorani della Banca Popolare di 
						Lodi... C'è da farsi venire il voltastomaco. Io non ho 
						mai rubato, ho creato posti di lavoro, ho aiutato il 
						"partito". Invece il capo di Unipol trafficava in 
						proprio con l'appoggio della Lega delle Cooperative, che 
						nel frattempo aveva mollato me».   Come lucrare 
						anche sul terremoto   L'ultimo scandalo giudiziario 
						ha come teatro sempre il settore delle costruzioni e una 
						regione rossa, ma lo sfondo è diverso: non l'Emilia, 
						bensì l'Umbria. II 30 maggio 2006 sono finiti in carcere 
						il costruttore perugino Leonardo Giombini (legato alle 
						Coop e un architetto di Foligno, Raffaele Di Palma. 
						Giombini ha costruito gli Ipercoop di Collestrada e di 
						Terni, supermercati a Spoleto e Chianciano, immobili 
						dell'Unipol, edifici pubblici. Il suo fatturato è 
						"esploso" nel 1997, in coincidenza con gli appalti del 
						dopo terremoto. Secondo le accuse, l'impresario 
						avrebbe messo in piedi un sistema di fondi neri grazie 
						alle sue attività con la Coop Centro Italia, il cui 
						presidente Giorgio Raggi e stato sindaco diessino di 
						Foligno ed è vicepresidente della Banca Popolare di 
						Spoleto in rappresentanza di 
						Montepaschi. L'immobiliare ICC della Coop affidava alla 
						società SG Capital Sri di Giombini gli studi di 
						fattibilità per la realizzazione di centri commerciali, 
						supermercati, parcheggi, pagando prezzi superiori a 
						quelli di mercato; poi aziende compiacenti facevano 
						figurare con fatture false spese inesistenti a carico 
						della SG: ed ecco la provvista in nero. Che secondo gli 
						inquirenti serviva anche a pagare tangenti a politici. Il terremoto in Umbria non fu 
						tra i più disastrasi registrati in Italia. A questo 
						punto v'è da chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere 
						in passato se le Coop avessero avuto mano libera nel 
						Belice, in Friuli, in Irpinia... È proprio il caso di 
						dirlo: la provvidenza c'è. |